martedì 6 dicembre 2011

MIDNIGHT IN PARIS, film di WOODY ALLEN, 2011

















MIDNIGHT IN PARIS, Woody Allen, 2011, 94 minuti





Woody Allen non si discute. I suoi film sono sempre piacevoli e quando hai trascorso un’ora e mezza in compagnia dei suoi personaggi [l’unità di misura temporale delle sue opere, tranne qualche rara eccezione, come Match Point che dura 124 minuti], vorresti continuare ad intrattenerti con loro. Tuttavia, dopo questo Midnight in Paris si ha sempre più l’impressione che il grande regista si muova più a suo agio nella Manhattan di sempre e più in generale nell’habitat anglo- americano di cui conosce pregi e difetti, piuttosto che nella complessa e articolata realtà del continente europeo di lingua e cultura latina. Non è un caso infatti che egli realizzi quattro film in Inghilterra, tra cui Match Point, il suo miglior film degli ultimi anni, mentre dedichi per così dire un’opera soltanto alla Spagna, con Vichy Cristina Barcellona [2008], una alla Francia con questo Midnight in Paris [2011], una all’Italia, in programmazione nel 2012.



Già il Woody Allen “spagnolo” dava l’impressione di voler mettere da parte se stesso, in parte rinunciando alle sue più recenti e intriganti incursioni sui temi del fato, dell’amore, della fortuna e del caso, e alle tante perle di saggezza disseminate nei dialoghi della sceneggiatura, per dare piuttosto spazio e voce agli stereotipi che un vasto pubblico è in grado di riconoscere immediatamente e di apprezzare, pagando volentieri il proprio tributo di denaro e di stima a un grande maestro del cinema. Cosa ci si aspetta di vedere della Spagna, nella coscienza collettiva? Il fascino del macho, la passione fatale che sa di amore e di sangue e poi, naturalmente, l’arte e la poesia. Ingredienti che da soli non fanno un film ma che, affidati alle mani e alle possibilità di un regista di fama planetaria, con attori che non potrebbero essere più bravi e adatti al ruolo che rappresentano, certamente ne determinano il successo.



Più o meno la stessa cosa accade con Midnight in Paris. Si comincia con alcuni minuti di reverente ossequio alla bellezza di Parigi: con “cartoline” di strade, piazze e monumenti della città che lo spettatore ha sempre il piacere di “rivedere”. Un dialogo improvviso ci sospinge nella trama [con uno stile che ricorda altri film di Allen]: una coppia di giovani americani arriva a Parigi insieme agli inquietanti e ultra-conservatori genitori di lei. I due sono in procinto di sposarsi e molto ricordano i fidanzati americani che si ritrovano a Barcellona. Lì, era lei a perdere la bussola, a lasciarsi andare per ascoltare il richiamo del desiderio e del cuore, mettendo temporaneamente da parte le regole dei “benpensanti”. Qui, accade esattamente il contrario. Gil [Owen Wilson] è uno sceneggiatore di successo di Hollywood che anela diventare un vero scrittore. Dove potrebbe se non a Parigi? Parla e si muove proprio come il giovane Woody Allen protagonista dei propri film. Bravura sia del regista che dell’attore? Inez [Rachel McAdams] è quella che oggi si direbbe una donna pratica e concreta: lo lascia fare ritenendo che il fidanzato sia in cerca solo di fugaci evasioni. E d’altronde, lei non disdegna le proprie: turismo erudito, divertimento a base di cene e festini convenzionali, un’avventura banale, tutto nello spirito di una giovane americana di buona famiglia in viaggio di piacere nella “capitale” del vecchio continente. Non cessa tuttavia di mostrare una certa insofferenza nei confronti del fidanzato, cui si concede raramente, e del quale non è in grado di comprendere né la natura romantica né il bisogno d’assoluto. Per strana e paradossale coincidenza [ma è davvero tale o non si tratta piuttosto di genialità del regista?] questa Rachel McAdams, nel fisico, nei movimenti e nello sguardo ricorda insieme, appena un po’ più superficiali, Cristina e Vichy, cioè Scarlet Johansson e Rebecca Hall, le protagoniste del film spagnolo.



Il sogno di Gil non è solo quello di diventare un grande scrittore. La trama del romanzo che sta portando a termine rivela la grande ammirazione che egli nutre per la Parigi degli anni Venti. Non poteva che essere così: è la realtà parigina che Woody Allen conosce meglio, quando una folla di intellettuali americani, con Ernest Hemingway, Scott e Zelda Fitzgerald e tanti altri, si stabilirono più o meno temporaneamente nella città francese, subito dopo la prima guerra mondiale, dandosi convegno insieme ad artisti europei, come Pablo Ricasso, nel salotto di Rue de Fleurus numero 27 di Gertrude Stein, un’altra famosa americana che si era trasferita a Parigi sin dal 1902. Ed è proprio in questo passato esaltante che Gil incontra l’amore, quello vero, non quello “finto”, sgarbato e insofferente che gli offre la fidanzata americana. La donna del sogno è Adriana [Marion Cotillard], già amante di Pablo Picasso e di Ernest Hemingway, sul cui volto “francese” si coglie tanta spiritualità [merito ancora una volta delle scelte del regista] ma che, proprio come Gil, coltiva una passione per il passato: la Parigi di fine Ottocento, quella della Belle époque, quando carrozze e cavalli si aggiravano per le strade e nei teatri si ballava al suono del French Cancan, un quadretto che gli internauti troveranno in un raro filmato che gira on line!



La reiterata nostalgia del passato consente di annunciare l’ovvia filosofia del film: “Che nessuno è felice dove si trova” [la battuta che lo scrittore Antoine de Saint Exupery fa dire ad uno dei suoi personaggi], ma che dobbiamo sforzarci di trovare la felicità lì dove siamo, e la “chiave” di questa ricerca è l’amore. Proprio come accadrà a Gil nel finale del film allorché incontra la giovanissima Gabrielle [Léa Seydoux] - un altro volto “francese” che nel fisico ricorda insieme sia Adriana che Inez - e sotto la pioggia s’incammina con lei mano nella mano lungo i ponti di Parigi, consapevole di una considerazione meno ovvia e cioè che “solo l’amore può far scordare la paura della morte”. Scena che più romantica non si può e che insieme a tutto il resto [compresa la presenza di Carla Bruni, moglie del presidente francese, nel ruolo di guida del museo] e alle note finali del Can-Can completano il “medaglione” con cui il famosissimo regista ebreo-americano ha inteso rendere omaggio a Parigi e alla Francia.



Gli stereotipi non mancano, come pure i luoghi comuni. Ma Woody Allen sa bene cosa il grosso pubblico - quello che decreta il successo economico di un film - vuole. In un linguaggio semplice, con ammiccamenti e satira sottile, con raffinatezza e genialità egli ci conduce per mano a vedere quello che vogliamo vedere perché lo conosciamo e non ci spaventa.


Sergio Magaldi







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