martedì 31 luglio 2012

LA MORTE E' UNA DONNA CHE NON RISPONDE ALLE LETTERE... nel romanzo di Saramago, pubblicato da Feltrinelli nell'Universale Economica (2012)

venerdì 27 luglio 2012

EUROPEISTI ED EUROSCETTICI




 Ieri, nel suo editoriale su il Giornale, Vittorio Feltri dava il benvenuto a coloro che entrano a far parte della squadra degli euroscettici. Tra costoro ci sarebbe anche Monti che avrebbe espresso più di una perplessità sulla nascita effettiva di un’Europa politica. Non mi sembra, quest’ultima, una grande novità, dal momento che il Presidente del consiglio e senatore a vita [“per meriti futuri”, parrebbe l’unica giustificazione della sua nomina da parte di Napolitano] ha sempre manifestato di avere a cuore l’Europa economica, gestita a Bruxelles e a Francoforte, nel solco dell’egemonia tedesca e secondo i parametri dell’alta finanza, piuttosto che l’Europa dei popoli.

 La cosa più interessante, tuttavia, è costatare che in base ai soliti sondaggi, gli italiani sarebbero passati dal primo posto come europeisti, al primo come euroscettici. Facile comprenderne la ragione, sempre che il sondaggio sia attendibile. Occorre tuttavia riflettere che non tutti gli europeisti sono uguali e non tutti gli euroscettici la pensano allo stesso modo.

 Infatti, si può essere europeisti al modo in cui lo fu Prodi, che fece pagare agli italiani persino un obolo per entrare nel paradiso dell’euro, che accettò il cambio umiliante della lira con l’euro, che magnificò, nel plauso della stragrande maggioranza dei media, degli esperti accademici e dei politici, l’ingresso del nostro Paese in un’Europa economica, dove era sin troppo chiaro che le regole le avrebbero dettate i più forti [tra cui non certo l’Italia] a danno dei più deboli [tra i quali si faceva credere non vi fosse l’Italia], con il risultato che è sotto gli occhi di tutti.

 Europeisti sono Draghi e company, con i tecnocrati o politici loro delegati al governo europeo e/o delle singole nazioni, preoccupati di proteggere il nuovo verbo dettato dal mercato globale e dalla finanza internazionale, che consiste essenzialmente nello speculare, facendo finta di punire giustamente i Pigs, “il ventre molle dell’Europa”, colpevole del generale malessere che attraversa attualmente l'intero continente. 

 In tale contesto, un ruolo strategico fondamentale lo esercita la Francia [di Sarkozy o di Hollande poco importa] e il suo mai sopito sogno di grandeur. Vero spartiacque tra cicale e formiche, tra i Pigs e i cosiddetti paesi virtuosi, la Francia, almeno per il momento, non sarà attaccata dai Panzer  a colpi di spread. Mentre alla Germania è concesso ancora una volta d’intonare il canto di sempre, quel Deutshland, Deutshland Über Alles, über alles in der Welt… scritto da August Heinrich Hoffmann von Fallersleben, sull’inno (1797) di Joseph Haydn per l'imperatore del Sacro Romano Impero.  Nato per esaltare un nobile spirito patriottico, finisce con l’essere il canto di guerra  di chi pretende egemonizzare l’Europa e il mondo intero. Lo canteranno i teutonici, come sempre, per un certo tratto della Storia, finché gli si spegnerà sulle labbra, come è già avvenuto e come avverrà quando sarà chiaro per tutti che il fine di questa vera e propria terza guerra mondiale è la caduta dell’euro e la proletarizzazione dell’Europa, Francia e Germania comprese.







 Ci sono poi, tra gli europeisti, i “pinguini impazziti”, come li definisce acutamente Sergio Di Cori Modigliani nel post del 22 Luglio del suo blog. Pionieri che credono sia venuto il momento di cercare altri spazi pur di salvare la specie. Sono coloro che credono e si battono con tutte le forze per dimostrare che è possibile mutare rotta, fuggire da questa Europa moribonda per far nascere gli Stati Uniti d’Europa, con una sola politica, un solo popolo, una sola legge, un solo P.I.L. e un identico prelievo fiscale.

 Agli uni e agli altri rispondono gli euroscettici. Quelli dell’ultima ora, e del piccolo cabotaggio, che in passato hanno sbagliato i propri conti e che oggi si pentono e quelli di sempre che oppongono un ragionamento semplice nella sua banale evidenza: il paragone con gli Stati Uniti d’America non regge. Innanzi tutto perché il popolo americano, pur con tutte le successive  e molteplici integrazioni, conserva da sempre l’unità linguistica e culturale degli anglosassoni, ceppo fondamentale di riferimento.

 In secondo luogo, ed è un po’ il rovescio della medaglia, perché l’Europa è formata da troppi popoli, lingue, costumi e tradizioni diverse, da paesi che per secoli hanno egemonizzato l’intero pianeta, facendosi guerra l’uno con l’altro.

 La cosiddetta Europa cristiana è un’invenzione religiosa. Schiava sotto Roma, proprio come l’Italia cantata da Goffredo Mameli, succube delle orde germaniche e delle scorribande arabe, l’Europa una all’insegna del trono e dell’altare, sotto Carlo Magno e il Sacro Romano Impero dei tedeschi, resta un continente in cui predominano gli egoismi nazionali e l’inimicizia dei popoli, di là dei tanti proclami. 

 Disponibile ancora l’Europa, come una nobile decaduta, a rappresentare l’Occidente, fulcro della storia del mondo, ma nel complesso imbelle e incapace di una politica unitaria, come si è ben visto, quando solo poco più di sessant’anni fa, senza l’aiuto degli americani, stava per cadere sotto la schiavitù del nazismo.

 Pure, la Storia è dalla parte dei “pinguini impazziti”. Gli euroscettici di sempre [non gli opportunisti] non hanno torto nell’immediato, ma il futuro del continente è nelle mani dei pionieri, perché “l’astuzia della ragione” non può non volere per il domani, quello che oggi appare ancora un’utopia: gli Stati Uniti d’Europa.


sergio magaldi

mercoledì 25 luglio 2012

PUO' L'AMORE MODIFICARE I PIANI DEL DESTINO? L'interrogativo su Premium Cinema: The Adjustment Bureau

The Adjgiustment Bureau, (I guardiani del destino) film di G.Noli, USA 2011, 106 minuti








 L’intrigante film di George Noli, presentato ieri e di nuovo oggi in anteprima Tv da  Mediaset Premium, ripropone nelle sequenze finali la vexata quaestio del rapporto fato-libero arbitrio, con il consueto interrogativo: fino a che punto la libertà umana è in grado di mutare il corso del destino?

 Jean Paul Sartre soleva dire che solo la morte muta la vita in destino, nel senso che l’uomo è l’unico responsabile delle proprie scelte e che la libertà del vivente è assoluta. Un po’ come  riproporre la massima rinascimentale dell’homo faber fortunae suae o, per stare con i piedi per terra, ripetere il vecchio adagio che “finché c’è vita c’è speranza”.

 Franco Lombardi, che per lungo tempo fu docente di Filosofia morale nell’Università di Roma e Direttore dell’Istituto di Filosofia, credeva invece che la libertà dell’uomo fosse una libertà pesante, condizionata cioè dalla “zavorra” che ognuno di noi reca con sé dalla nascita. Innanzi tutto i geni degli antenati e la loro vicenda personale, poi la situazione storica, geografica, climatica, sociale, etica, religiosa, economica e ambientale di riferimento, cui presto si aggiungono l’educazione e le esperienze maturate nell’infanzia e nell’adolescenza. Con tali premesse, la libertà del nato di donna  adulto [maschio o femmina] si esercita perciò faticosamente e solo all’interno di quello che chiamerei il cerchio magico del fato, diversamente tracciato sin dalla nascita per ciascuno di noi. Una concezione per così dire mediata della libertà e del destino, quella più comunemente condivisa, perché più realistica e basata sull’aristotelico giusto mezzo,  per taluni fondamento di ogni virtù. Una visione che, mutatis mutandis, caratterizzò anche le dispute astrologiche durante l’ Umanesimo e il Rinascimento e che portò alla salomonica conclusione che “gli astri inclinano ma non determinano”, conciliando così il fato, rappresentato dalla posizione di astri e pianeti al momento della nascita, con la libertà che rende possibile modificare le proprie inclinazioni, mutando  anche la propria storia personale. 

 Discussione affascinante e mai veramente sopita questa del rapporto tra fato e libero arbitrio, ma anche inutile, perché non sapremo mai se quelle che noi riteniamo “scelte di libertà” siano per così dire davvero libere o non facciano parte anch’esse di un piano del destino. Insomma, come dice uno dei “guardiani” più importanti di The Adjustment Bureau, [in italiano: I guardiani del destino], il film tratto da un racconto di Philip K. Dick, l’uomo ha solo l’impressione del libero arbitrio. E in fondo questo è quello che conta perché, non potendo mettere le mani su ciò che il fato ha progettato per noi, ma al massimo intuendo qualcosa [o magari più di qualcosa], finiamo col vivere come se fossimo liberi… a prescindere se lo siamo davvero oppure no.

 Chi sono i guardiani? Angeli? “Molti ci chiamano così- ammette uno di loro – rispondendo a David Norris  [un eccellente Matt Damon]. Chi li comanda e perché? “Li guida uno che chiamiamo Il Presidente e che voi chiamate con tanti nomi diversi” – osserva un altro guardiano, con chiara allusione al trascendente. Angeli del bene e del male, secondo il punto di vista umano, veri e propri daìmones con il compito di far rispettare il piano del destino tracciato dal Presidente, perché l’uomo, lasciato libero a se stesso, finirebbe col distruggere il pianeta. Questo più o meno è ciò che l’angelo racconta all’incredulo David: “Noi abbandoniamo spesso il mondo, sperando che sia in grado di cavarsela da solo, ma poi siamo sempre costretti a tornare. Nel 1910, ce n’eravamo andati. Cosa non è successo nei cinquant’anni successivi? Due guerre mondiali, il nazifascismo, l’olocausto, la guerra fredda, la minaccia atomica… siamo stati costretti a tornare!”

 David Norris e Elise Sellas [un’affascinante Emily Blunt] s’incontrano per caso [ma è veramente un caso?] nel bagno degli uomini di un edificio pubblico. Tra loro nasce subito l'amore. Ma i guardiani ordinano a David che non deve più rivedere la ragazza: la loro unione non fa parte del piano del destino. Tra alterne vicende, si apprende poi che un vecchio piano prevedeva il loro incontro e il loro amore. Scopriamo dunque un po’ delusi che ciò che li aveva attratti non era frutto di libera scelta, ma veniamo anche a sapere che il piano del destino si può cambiare. Il nuovo piano aggiornato non prevede infatti più la loro unione. Il perché ce lo spiega ancora un guardiano. Separati, raggiungeranno entrambi le mete prefisse: lui diverrà senatore dello stato di New York e poi candidato alla Casa Bianca, lei una famosa danzatrice. Insieme fallirebbero. In conclusione, dice l’angelo a David, presa a piccole dosi, Elise è per lui una cura, ma se dovessero vivere sempre insieme, la ragazza lo distoglierebbe dal grande compito che lo attende.

 Il resto della storia lo lascio all’immaginazione e agli occhi di chi non ha ancora visto il film, peraltro relativamente recente [2011]. Non senza riproporre la domanda che ponevo nel titolo del post: “Può l’amore modificare i piani del destino?” Insomma, può l’amore, quando è invincibile come la morte [Nel mito, non a caso, Eros e Thanatos, Amore e Morte, si corrispondono] essere la cifra della libertà, il banco di prova del nostro rapporto col Fato?


sergio magaldi









martedì 24 luglio 2012

L'AMORE E I SUOI SEGRETI nel nuovo romanzo di Care Santos

Care Santos, Il colore della memoria, Salani, Milano,2012, pp.586


 Habitaciones Cerradas [letteralmente “Stanze chiuse” o segrete], reso in italiano con il titolo accattivante, ancorché adusato, di Il colore della memoria, è la prova di come anche un giornalista possa scrivere un ottimo romanzo. Una giornalista che, come Care Santos, abbia magari studiato filologia…

 La lunga narrazione mantiene sempre viva l’attenzione del lettore, anche se, nella parte centrale del romanzo, la scrittrice si concede qualche pausa di troppo, descrivendo ambientazioni e rituali della buona borghesia catalana, durante i decenni del Novecento che precedono la guerra civile spagnola.

 Una saga familiare che va dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, in cui vive Violeta Lax, critica d’arte e nipote del famoso pittore Amadeo Lax [1889-1974]. La storia di un segreto di famiglia che si perpetua per generazioni nella Barcellona di Gaudì e che si svelerà poco a poco, sia pure con esiti prevedibili, sin dal momento in cui si procede, nell’antica dimora dei Lax, al lavoro di distacco da una parete del grande affresco di Teresa assente, eseguito dal pittore nel 1936, nel ricordo dell’amata e bellissima moglie Teresa Brusés, più giovane di lui e fuggita per amore con un altro uomo. Il romanzo inizia proprio dalla descrizione dell’affresco, tratta da una pubblicazione sui “Gioielli dell’arte catalana”:

Teresa assente, 1936. Affresco, 300 x 197 cm. Attualmente non visitabile.

 Teresa Brusés fu la grande ossessione, oltre che – si dice – la grande sciagura del pittore Amadeo Lax. Dei trentasette ritratti che le dedicò, solo un terzo si può ricondurre agli otto anni della loro convivenza matrimoniale. Il più originale di tutti, considerato l’opera maestra dell’autore, è questo affresco di grandi dimensioni eseguito durante i lavori di ristrutturazione del patio di casa e datato 1936 (con ogni probabilità all’inizio dell’estate). La tecnica utilizzata è il cosiddetto ‘affresco a secco’ che prevede l’impiego di colori diluiti in acqua su uno strato di malta asciutta, e che curiosamente Lax  adottò qui per la prima e ultima volta. L’opera mostra la modella dalla vita in su, con il corpo girato di fianco e il viso quasi di profilo, mentre guarda verso un punto al di fuori del quadro, con un’aria come inquieta o sperduta. Il senso di smarrimento è sottolineato dalla gamma cromatica adottata – predominano le tinte scure: blu, nero, ocra, indaco… - e dal tratto grossolano, quasi trasandato, con cui vengono risolti alcuni dettagli, quali i capelli o le mani. Si tratta di una vera eccezione nell’opera di un pittore meticoloso, che riservò sempre la massima cura al contorno e al tratteggio della figura, e che in questa occasione dimostra una prossimità allo stile espressionistico del tutto inedita nel suo percorso artistico. Naturalmente si è scritto molto sullo stile di quest’opera, che quasi tutti gli esperti attribuiscono al momento critico in cui fu concepita, poco dopo che Teresa lasciasse il pittore per un altro uomo. Sfortunatamente l’affresco non è esposto al pubblico, trovandosi all’interno di quella che fu un tempo la residenza dell’artista. Il progetto museistico dell’edificio attende da anni il benestare delle istituzioni, tra cui il governo autonomo della Catalogna, indicato da Lax quale erede della casa e delle sue opere.”.


  Teresa Brusés, figlia di un ricco commerciante di tessuti, conosceva Amadeo sin da bambina, da quando il pittore, erede delle industrie Lax e di quelle dei Golorons, aveva ritratto individualmente ogni membro della famiglia Brusés. Così è descritto, tra l’altro, il quadro, un olio su tela di dimensioni 180 x 70 cm, nel catalogo dell’esposizione di un museo di Madrid in cui è custodito:

 “Spicca la vivacità dei colori – l’azzurro della gonna di Teresa e i toni sull’ocra dei capelli biondi –, combinata all’espressività del viso, in cui l’artista percepì la psicologia di una giovane dolce e irrequieta, ma anche interessata allo studio e alla lettura. L’importanza che la beniamina dei fratelli Brusés attribuiva a tali attività si riflette nel libro posato in grembo. Non sarà questa l’unica volta in cui Lax renderà omaggio al gusto di Teresa per la lettura in una delle sue tele. Il fiore tra i capelli simboleggia la femminilità, mentre il gatto che le dorme in grembo il mondo infantile che la modella non ha ancora abbandonato del tutto. Come si è notato spesso, non è una rarità che la musa principale del pittore sia ritratta in compagnia di libri e gatti.” [p.95, Edizione Mondadori per Mondolibri su licenza Salani].

 Nel Marzo del 2010, Violeta Lax, che vive e lavora negli Stati Uniti, decide di tornare in Europa, prima a Barcellona, dove l’affresco di sua nonna Teresa sta per essere asportato dal muro del vecchio patio, poi in Italia, precisamente a Nesso, sul lago di Como, per via di un messaggio inquietante ricevuto da una sconosciuta. Gli interrogativi sollevati dalla rimozione dell’affresco, inducono Violeta a riflettere sulla storia della propria famiglia, sul significato della fuga della modella di cui pure conosceva il grande amore per Amadeo, nato già in occasione del ritratto, quando Teresa aveva solo 11 anni, accresciutosi febbrilmente negli otto anni successivi che la separarono dalle nozze con lui (1928) e durato per altri otto anni sino alla fuga con l’amante (1936).

 “Le sedute di posa durarono quattro giorni, durante i quali Teresa ricambiò lo sguardo fisso del pittore. Affascinata com’era dalla sua eleganza, dalla sua aria taciturna e dalla sua età irraggiungibile (a quell’epoca Lax era sulla trentina), si convinse che doveva esserci chissà quale segreto nel fondo di quegli occhi e si disse che non avrebbe smesso di cercarlo finché non l’avesse trovato. Quando ebbe concluso la sua opera, Amadeo Lax uscì da casa Brusés lasciando il primo dei trentasette ritratti di Teresa e la giovane modella pazza d’amore per lui.”[p.94].

 Care Santos utilizza registri vari e materiali diversi. Innanzi tutto, la narrazione alterna la terza persona con la prima, quando Violeta parla attraverso le numerose e-mail che scambia  soprattutto con la madre. Per informarci sui fatti, l’autrice ricorre poi alle cronache di giornali e riviste, alla descrizione da catalogo di sette dipinti di Amadeo, ad inventari, atti, rapporti e documenti vari, e persino all’estratto di un blog e ad una lunga lettera cartacea. Niente di meglio per utilizzare gli strumenti contemporanei della comunicazione, restando nello spirito dell’epoca e al tempo stesso dando al racconto tutto il realismo e l’oggettività di cui necessita. 

 Con non minore disinvoltura, la scrittrice catalana naviga attraverso il tempo, in un andirivieni che spesso costringe il lettore a fare altrettanto con le pagine del romanzo, per non perdere il filo della narrazione e smarrirsi nel labirinto dei fatti. C’è poi chi, come me, si domanda in che modo Violeta riesca a scoprire la verità sulla storia della propria famiglia, dal momento che possiede solo qualche vaga intuizione e a conoscere la realtà dei fatti è solo chi racconta in terza persona. Chi parla? Chi è autorizzato a parlare? Verrebbe da chiedersi con Foucault.

 La nipote di Amadeo Lax è abbastanza perspicace da cogliere particolari significativi, come il messaggio cifrato contenuto nel libro Spirite di Teofilo Gautier, donato a Teresa dal suo presunto amante. Il messaggio in codice è formato di sedici lettere sottolineate nel corpo del libro che danno la frase “s-e-g-u-i-m-i-n-e-l-f-u-t-u-r-o”, seguimi nel futuro, e alcuni dei numeri di queste pagine sono evidenziati sino a formare una probabile  data e forse un orario (pp.282-283). Un appuntamento segreto per la fuga dei due amanti o che altro?

 Elementi come questi, quando non siano addirittura fuorvianti, sono comunque insufficienti per permettere a Violeta di trarre conclusioni certe e definitive sull’intera vicenda. Ma tant’è: il passato della famiglia Lax verrà fuori dalla collaborazione ibrida tra chi narra e la nipote del famoso pittore. Non si tratta in fondo che di una lieve imperfezione che a qualcuno potrebbe neppure apparire come tale. C’è poi qualche elemento di troppo che si affianca gratuitamente alla narrazione principale, così per esempio l'informazione sui gusti sessuali di Violeta che serve a Care Santos per imbastire a margine una breve quanto patetica vicenda. Forse una concessione fatta ai nostri tempi e  al pubblico più giovane.

 Pur con questi limiti, il romanzo di Care Santos resta avvincente e tiene il lettore nella continua attesa di conoscere tutta la verità sul passato di Amadeo Lax e della sua famiglia. L’autrice si dimostra una narratrice di razza, capace di padroneggiare i tanti materiali utilizzati e di saperli amalgamare in una sintesi pregiata, dove il confine tra realtà e fantasia si smarrisce costantemente, come è giusto che sia in ogni creazione dello spirito. Il linguaggio, semplice anche nella traduzione italiana di Claudia Marseguerra, nulla concede all’artificio retorico e al concettualismo. La descrizione di ambienti ed oggetti è perfetta, anche se talora può apparire eccessiva e squisitamente femminile. I personaggi sono raffigurati come in un affresco, senza nulla concedere all’indagine mentale e psicologica, ma lasciando intravedere ugualmente il loro spessore umano. Un romanzo per tutti e per ogni età, una rara capacità di coniugare la modernità dello stile con l’esigenza di raccontare il passato. Una lettura da non perdere.

 Il libro contiene in appendice una nota dell’autrice e una sua breve intervista. Il mio consiglio è di prenderne visione solo dopo aver letto l’ultima parola di questa storia intrigante. 




sergio magaldi

venerdì 20 luglio 2012

L'IMPERMANENZA ALLA MANIERA DI SARAMAGO

La prima edizione italiana di J.Saramago, Tutti i nomi, Einaudi,Torino


 Leggere o rileggere José Saramago sulla spiaggia può apparire faticoso, ma è certamente stimolante per chi voglia riflettere sulla condizione umana. Si prendano, per esempio, romanzi come Tutti i nomi o Le intermittenze della morte [di recente pubblicati per la Universale Economica Feltrinelli]: il lettore si troverà, quasi senza accorgersene, coinvolto nel concetto fondamentale del Buddhismo filosofico e religioso: l’impermanenza. Naturalmente, il lettore balneare non ha di che preoccuparsi, perché il tema è affrontato alla maniera di Saramago, con quel tanto di ironia che il grande scrittore portoghese mette nei suoi romanzi.

 Tutti i nomi [dell’altro romanzo, Le intermittenze della morte, parlerò in un altro post] sono quelli dei vivi e dei morti che riempiono le schede della Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Nomi rigorosamente separati fra loro, ma contigui e comunicanti per il flusso continuo ed irreversibile che fa affluire le schede dei vivi nell’archivio dei morti.

 Uno dei sacerdoti del rituale di passaggio è José [il solo personaggio ad avere un nome nel romanzo], scritturale ausiliario di cinquant’anni, e unico impiegato rimasto a vivere per puro caso nell’ultima casetta a due porte [l’una che dà sulla strada, l’altra che dall’interno comunica con la Conservatoria], “aggrappata” al corpo dell’edificio e lasciata dal Comune a testimonianza di un modello architettonico che prevedeva altrettante casette per tutti gli impiegati.


L'edizione dell'Universale Economica Feltrinelli (U.E.F)



  Il solo piacere che il solitario José si concede è quello di collezionare “ritagli di giornali e riviste con notizie e immagini di gente celebre”[p.20 U.E.F]. Ciò che sorprende – osserva il narratore – è che egli tenga segreta questa sua passione, giacché “Persone così, come questo Signor José, le incontriamo dovunque, occupano il proprio tempo o il tempo che credono gli avanzi della vita a raccogliere francobolli, monete, medaglie, vasi, cartoline, scatole di fiammiferi, libri, orologi, magliette sportive, autografi, pietre, pupazzetti di terracotta, lattine vuote, angioletti, cactus, libretti d’opera, accendisigari, penne, gufi, cassette di musica, bottiglie, bonsai, dipinti, boccali, pipe, obelischi di cristallo, papere di porcellana, giocattoli antichi, maschere di carnevale, probabilmente lo fanno per qualcosa che potremmo definire angoscia metafisica, forse perché non riescono a sopportare l’idea del caos come principio unico che regge l’universo, e perciò,con le loro deboli forze e senza l’aiuto divino, tentano di mettere un certo ordine nel mondo, e per un po’ di tempo ci riescono pure, ma solo finché possono difendere la propria collezione, perché quando arriva il giorno in cui questa si disperde, e quel giorno arriva sempre, o per morte o per stanchezza del collezionista, tutto ritorna all’inizio, tutto ritorna a confondersi.”[pp.19-20].

 Già, questo è forse il peccato originale del collezionismo: credere che qualcosa sia per sempre! Nell'illusione cade il collezionista, ma anche l’uomo d’affari intento a far denaro, l’uomo comune che accumula per avidità, chi si ritiene in possesso di grande sensibilità, senza accorgersi di essere sensibile solo verso se stesso, colui che giura di mantenere una promessa, l’amante che più o meno sinceramente dichiara all’altro che lo amerà per sempre: “Tutte le formazioni fisiche e mentali sono impermanenti – dichiara il Buddha – soggette alla sofferenza e prive di sostanza”. 

 Per poco che osserviamo noi stessi, siamo in grado di comprendere che l’impermanenza è costitutiva del nostro essere. La conseguenza è l’inconsistenza, l’assoluta incapacità di essere niente altro che un  essere per la morte, come sostiene Heidegger. Spesso, un grande amore o l’idea di lottare per una causa giusta può far dimenticare tutto questo, ma il disamore e la disillusione che giungono puntuali ci aiutano a comprendere che l’unica cosa che resta è soffermarci a pensare il fenomeno del sorgere  e del passare, consapevoli – come osserva ancora il Buddha – che tutte le sensazioni sono “impermanenti e composte, che sorgono per una causa e sono destinate a non durare, e per natura a passare, scomparire, cessare”.

 Compito in apparenza facile, perché tutti nella vita fanno  esperienza del cambiamento e della morte degli altri. Più difficile è accettarne le conseguenze e farne la cifra della propria esistenza. Scrive Nichiren Daishonin nel Gosho Conversazione tra un saggio e un uomo non illuminato

 “Quando improvvisamente ci troviamo di fronte all’impermanenza della vita [possiamo spaventarci al pensiero dell’ignoto e disperarci per la brevità del mondo a noi familiare], consideriamo sfortunati coloro che ci hanno preceduto nella morte, e superiori noi che siamo rimasti in vita. Presi da un impegno ieri e da un altro oggi, siamo vincolati senza scampo dai cinque desideri della nostra natura terrena. Inconsapevoli del fatto che il tempo passa veloce come un puledro bianco visto attraverso la fessura di un muro, ignari come una pecora condotta al macello, irrimediabilmente prigionieri del cibo e del vestiario, cadiamo senza accorgercene nella trappola della fama e del guadagno.”.

 Così, l’unico modo per esorcizzare il timore della morte fisica è abituarsi a cogliere l’impermanenza nei piccoli e grandi fatti della vita, nella consapevolezza che ogni sensazione, ogni sentimento, ogni volontà si trasforma costantemente e che noi sperimentiamo di continuo il passaggio dalla vita alla morte. Non è un caso che, nel romanzo, il Cimitero Generale sia adiacente alla Conservatoria e che: “Si entra nel cimitero passando per un antico edificio la cui facciata è sorella gemella di quella della Conservatoria Generale dell’Anagrafe. Presenta gli stessi tre gradini di pietra nera, la stessa vecchia porta nel mezzo, le stesse cinque finestre oblunghe sopra. Se non fosse per il grande portone a due battenti contiguo alla facciata principale, l’unica differenza visibile sarebbe la targhetta sopra la porta d’ingresso, anch’essa a lettere smaltate che dice Cimitero Generale.”[p.171]  

 Il motivo della segretezza della collezione di José si spiega forse con l’illusione che una notte, mentre lavora tranquillamente a casa sull’aggiornamento degli incartamenti di un vescovo, “gli avrebbe cambiato la vita”. Si tratta dell’idea per lui luminosa  di creare un archivio personale e privato con le schede dei 100 personaggi più illustri, copiandole dagli archivi grazie alla chiave, di cui non gli è  stata chiesta la restituzione, della porta comunicante della Conservatoria. Il caso vuole che, insieme alle schede di viventi celebri, finisca nelle sue mani anche la scheda di una giovane donna, una perfetta sconosciuta.

 Da quel momento ha inizio per José una ricerca ossessiva per rintracciare la donna in carne e ossa. Le motivazioni di questo spasmodico tentativo, Saramago non le rende esplicite, ma sono abbastanza riconoscibili per via di episodi non sempre fortunati e per il dialogo interiore di cui si rende protagonista lo scritturale ausiliario. La narrazione qui si fa talora kafkiana, sia per il senso di colpa che agita l’animo di José, sia per la ricerca “labirintica” e in apparenza gratuita che ricorda l’agrimensore K. sulle orme del Signore del Castello.

 La vicenda di José e il suo esito ispireranno l’animo del Conservatore: d’ora in avanti, nello schedario della Conservatoria Generale dell’Anagrafe, verrà abolita la barriera esistente tra vivi e  morti


sergio magaldi

venerdì 13 luglio 2012

IL ROMANZO E' MORTO? MASSIMO GRAMELLINI: AUTOBIOGRAFIA DI UN GIORNALISTA

    Massimo Gramellini, Fai bei sogni, Longanesi, Milano 2012, pp.209.
      Il secondo romanzo di Massimo Gramellini - vicedirettore del quotidiano La Stampa di Torino, ospite fisso di Fabio Fazio in TV - ha resistito per diversi mesi in testa alla classifica dei romanzi italiani più venduti e attualmente occupa stabilmente la seconda posizione, preceduto soltanto da Una lama di luce di Andrea Camilleri.
      
      Dopo averlo letto, ho cercato a fatica in rete e sulla stampa una recensione non necessariamente elogiativa del breve romanzo. Forse perché non esiste più una critica letteraria, come sostiene Massimo Fini in un articolo pubblicato nel mese di Maggio su Il Gazzettino e in cui accenna a Fai bei sogni di Gramellini:

     “[…] non esiste più una critica letteraria, per la semplice ragione che non esiste più la letteratura se per tale si intende il romanzo. Per un paio di secoli il romanzo è stato la forma di espressione della borghesia. Scomparsa la borghesia come classe sociale dominante in Italia (all’incirca negli anni Sessanta) lentamente è morto anche il romanzo.[…]Vanno semmai i gialli svedesi, cinesi o quelli dei nostri Camilleri e Riondillo; ma sono più che altro un pretesto per delle descrizioni d’ambiente. Sarebbe difficile definirli "letteratura" in senso proprio. Oggi al posto della borghesia, classe strutturata, c’è un ceto medio indifferenziato i cui scrittori, per dirla col Gaber di "Trani a gogò", "parlano di sè fra sè e sè". Non è certo un caso che in testa alla classifica della Narrativa ci sia "Fai bei sogni" di Massimo Gramellini, che è un’autobiografia. […].”

     Autobiografia dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza, piuttosto sommaria ed essenziale, quasi una cronaca è infatti quella che Massimo Gramellini presenta nelle 209 paginette del suo secondo romanzo. E proprio di scrivere come un giornalista, lo rimprovera Gaia Conventi [una delle poche voci non elogiative di Fai bei sogni] in www.sulromanzo.it , osservando bruscamente che se il romanzo l’avesse scritto un Mario Rossi qualsiasi, né Longanesi né un altro editore degno di questo nome l’avrebbero pubblicato. È un po’ la scoperta dell’acqua calda, come non si sapesse che oggi la narrativa italiana è fatta in gran parte [per fortuna ancora non completamente] da giornalisti, attori, cantanti, politici, personaggi della TV pubblica e privata, per il semplice motivo che sono in grado di garantire le vendite. E di che dovrebbero parlare costoro se non di se stessi, prestati alla “scrittura” quando hanno già ottenuto un riconoscimento pubblico per la loro professione e/o sono in un’età in cui diviene dolce il ricordare? 

      Ma, a quanto osserva Massimo Fini, anche i giovani che gli inviano i loro dattiloscritti, sono inclini a parlare di se stessi. Perché il romanzo come letteratura è morto, essendo morta la borghesia, come classe strutturata e dominante che ne era l’espressione, per far posto ad un ceto medio indifferenziato che si nutre di romanzi brevi e scritti in modo semplicistico, che legge per evasione, per coltivare il proprio io, trovando nell’io dello scrittore, un alter ego spesso confortante, o che, nella trama “a giallo”, solletica gli istinti primordiali e il gusto dell’avventura come surrogato di una vita spesso scialba e seriale. 

      Può darsi che Massimo Fini abbia ragione, ma può anche darsi di no. Il romanzo come letteratura di cui egli avverte la mancanza era accessibile a pochi. I libri e soprattutto il genere narrativo era riservato a quella élite culturale che nell’otium poteva permettersi di coltivare la fantasia e l’immaginazione e che era in grado di comprendere il linguaggio e la filosofia dello scrittore perché quello era il suo stesso linguaggio, quelli erano i suoi stessi valori. Per la  restante parte della popolazione c’era al massimo il manuale scolastico o l’enciclopedia. Prendere atto che oggi c’è “un ceto medio indifferenziato” che compra e legge narrativa non può che far piacere a chi abbia a cuore la condivisione del sapere da parte del maggior numero, anche e soprattutto se questo sapere, come nel caso del romanzo, serve non tanto a indottrinare, quanto a comunicare un’emozione, a stimolare la fantasia e a riflettere liberamente. Non è dunque un alibi sostenere che oggi, per questo pubblico, l’unica narrativa possibile è il “giallo” o il racconto autobiografico. Cosa fa l’editoria nazionale, cosa fanno le tante istituzioni accademiche e culturali per promuovere il gusto dei lettori, per incoraggiare la presenza di autentici scrittori? E non viene in mente che l’assenza di una critica letteraria, più che alla scomparsa del romanzo, si debba ad una stampa asservita alla logica di un potere interessato a stimolare più la pancia che la testa della gente? 

      Personalmente, non credo che il romanzo sia morto. Ha solo cambiato pelle. Basta guardare a quello che accade in Europa e negli Stati Uniti: anche lì “un ceto medio indifferenziato” ha preso il posto di una borghesia “strutturata e dominante”, eppure si continua a produrre ottima narrativa. La verità è che nel nostro Paese la crisi del romanzo, come del resto del cinema, e delle arti in genere, è figlia di una classe dirigente che, ad ogni livello, è incapace, corrotta, intrigante e corporativa. “C’è qualcosa di marcio” oggi in Italia e non sarà facile liberarsi di questa spazzatura, in tutto simile a quella che affiora di continuo nelle strade delle nostre belle città del Mezzogiorno.  

     Tornando al romanzo di Massimo Gramellini, la seconda recensione critica che ho trovato in rete è quella di Angela Bongiorno su www.letteratu.it . Rispetto all’altra, ha il merito di un  maggiore approfondimento, ancorché se ne condividano o meno le analisi. Nella sostanza, la Bongiorno “rimprovera” all’autore di Fai bei sogni non tanto di aver scritto un’autobiografia, quanto di aver ridotto la realtà che descrive ad una proiezione del suo proprio, piccolo “io”. Scrive tra l’altro: 

     “Le parole del libro scorrono con un ritmo estremamente sostenuto, filano via in un’assenza quasi totale di descrizione, azzerando la profondità di ogni personaggio e riducendolo al rango di mero bozzetto”. 

      Io non sarei così severo nei confronti del romanzo di Gramellini. È vero che le parole scorrono velocemente tanto che “in un paio di nottate” si può portare a termine la lettura dell’intero libro. Ma questo non è necessariamente un difetto e diventa addirittura un merito se lo si paragona con altri romanzi in cui occorre troppo tempo prima che il lettore entri in sintonia con l’autore. Quanto ai personaggi, se pure mancano di spessore, non è vero che siano meri bozzetti. In un’autobiografia, del resto, è quasi sempre così. L’io narrante “incontra” gli altri per quel tanto che gli serve a raccontare se stesso, soprattutto se ha deciso di farlo in 200 paginette. Pure, diversi sono gli spunti offerti dall’autore per comprendere la psicologia dei personaggi più importanti che gli ruotano attorno, come Madrina, il padre e la madre. Inoltre, non è da sottovalutare il titolo, Fai bei sogni, che se per Gramellini rappresenta il ricordo dolce-amaro della voce di sua madre, per il pubblico è un invito accattivante: chi di noi non vorrebbe fare bei sogni? 

      Se c’è una critica che posso fare al libro è talora proprio questo “andare verso il pubblico”, questa volontaria o involontaria determinazione a compiacerlo, a rimestare in lui l’eco di frasi fatte e situazioni sopite che per il lettore che le riscopre hanno un che di familiare, quasi la consacrazione di un discorso televisivo o di un dibattito domestico. Come per esempio nell’espressione popolare utilizzata più volte per descrivere e personalizzare, per la mente di un bambino, il tumore che affligge sua madre. Nelle intenzioni dell’autore dovrebbe farci commuovere e sorridere insieme:
        
     “Brutto Male aveva svegliato la mamma durante la notte, ma lei lo aveva pregato di portare pazienza ancora un po’, il tempo di venire a rimboccarmi le coperte […] 
    Ignoravo come avrebbe potuto sentirsi una mamma alle prese con Brutto Male. Abbastanza male di sicuro, per quanto le mamme fossero dotate di risorse inesauribili. Ma non era possibile che soltanto la mia fosse riuscita a convincere quel tanghero a darle il permesso di venire a rimboccarmi le coperte. 
    Si trattava di una frottola messa in giro da una persona dotata di scarsa fantasia. Dunque da papà. Voleva farmi credere che fino all’ultimo la mamma ci aveva voluto bene. Mentre, se era scappata con Brutto Male, era proprio perché non ce ne voleva più.” [p.28] 

      Non mancano pagine, tuttavia, dove l’ironia è autentica, come per esempio nel parlare di una ragazza incontrata all’università, “l’altissima, bellissima, narcisissima Alessia. La signorina Prime Volte” [p.101]. E per la verità tutto il libro è pervaso di sottile ironia che stempera il dramma personale, anche quando, nelle pagine finali, diventa dolorosa consapevolezza. Quasi una concessione che l’io dell’autore fa al lettore.

    J. Hillman, Il codice dell'anima, Adelphi, Milano 1997

     Infine, la filosofia del romanzo è affidata al daimon che Massimo Gramellini scopre dentro di sé sin dall’infanzia. Peccato non averlo fatto parlare di più. Il suo nome è Belfagor e ha tutte le caratteristiche che James Hillman gli attribuisce nel suo Il codice dell’anima: 

      “Il daimon svolge la sua funzione di “promemoria” in molti modi. Ci motiva. Ci protegge. Inventa e insiste con ostinata fedeltà. Si oppone alla ragionevolezza facile ai compromessi e spesso obbliga il suo padrone alla devianza e alla bizzarria, specialmente quando si sente trascurato o contrastato. Offre conforto e può attirarci nel suo guscio, ma non sopporta l’innocenza […]” [J.Hillman, Il codice dell’anima, Adhelphi, Milano 1997, p.60] 

    L'edizione del 2009

      Lo scopo del daimon è quello di non farci soffrire, ma a prezzo della verità e della crescita interiore. Gramellini ne sperimenta "i tentacoli" quando la signorina Prime Volte lo lascia:

     "Quando Alessia mi lasciò per telefono, un minuto dopo avermi ribadito che mi amava, le difese crollarono e Belfagor si impadronì del mio cervello" [p.102]

      E da questa battaglia personale col daimon, che si è svolta durante l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza, Massimo Gramellini ci annuncia di essere uscito infine vincitore. Belfagor lo proteggeva, ma gli impediva di vedere, perché - osserva l’autore in forma di monito – “Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire… per non guarire […]”



    sergio magaldi

    domenica 8 luglio 2012

    VOLVER (Tornare), il film di ALMODOVAR riproposto da Cinema Emotion

    VOLVER, film di Pedro Almodovar, 2006, Spagna, 120 minuti


      

     Ieri, all’ora di pranzo, la pay TV ha riproposto lo splendido VOLVER (Tornare) che nel 2006 vinse il festival di Cannes per la migliore sceneggiatura (regista e sceneggiatore Pedro Almodóvar) e la migliore interpretazione femminile (una bellissima e brava Penélope Cruz e non solo). Un film che non dovrebbe mancare nella cineteca di ogni amante del cinema.

     Per altri film di Almodóvar, leggi in questo blog i post La pelle che abito del giorno 11 Ottobre 2011 e Gli abbracci spezzati del 22 Novembre 2009. 

     Già allora, quando uscì Volver il quotidiano La Repubblica parlò di un omaggio, forse esagerato, del regista spagnolo alle donne. 

     Rivedere il film ancora una volta, mi ha fatto pensare che non c’è nulla di esagerato. Cinque donne emblematiche, Raimunda (Penélope Cruz), Irene (Carmen Maura), Sole (Lola Dueñas), Agustina (Blanca Portillo) e Paula (Yohana Cobo), generazioni diverse che tengono in mano il filo della vita e il destino dell’uomo. Lo fanno nascere, lo nutrono, lo seducono, lo amano, gli danno sepoltura e lo piangono, dopo averlo punito delle colpe più o meno gravi di cui è solito macchiarsi: tradimento, incesto e violenza. Anche nel delitto e nella vendetta, restano innocenti, perché sembrano agire non solo per difendere se stesse ma in nome di una Legge non scritta e più grande: l’equilibrio del bene e del male, perché la bilancia del mondo si mantenga stabile.

     Non a caso la Qabbalah ritiene superflua l’iniziazione femminile [non si tratta solo di un alibi per “coprire” il maschilismo, che talora si nasconde dietro certe affermazioni di principio], perché non è tanto la donna ad aver bisogno di rettificazione, ma l’uomo, il nato di donna. E in questo costante lavoro su se stesso, egli si gioverà della donna, senza approfittarne. La riceverà come un dono, un Aiuto come afferma Kafka, o una Divina presenza (Shekinah) come sostengono i cabbalisti.

     Volver, non è solo il tornare da Madrid al pueblo de La Mancha delle proprie origini (com’è per le cinque donne della finzione e per lo stesso Almodóvar della realtà). Tornare è il ritmo di flamenco di cui è tessuta la vita: l’andamento ciclico del tempo che si ripropone sempre uguale a se stesso ma, purtroppo, ogni volta su una ottava superiore. Tornano il primo amore, le stagioni, la giovinezza e la vecchiaia, la vita e la morte: è sempre la stessa trama ma per l’individuo è sempre una cosa diversa e sempre più dolorosa perché poco a poco egli s’incatena al flusso dei ricordi e non gli rimane più il tempo di sognare, come nelle parole della canzone di Estrella Morente, sussurrata nel film da un’incantevole Penélope Cruz:

     (…)Y aunque no quise el regreso
    Siempre se vuelve al primer amor..
    La vieja calle donde el eco dijo
    Tuya es su vida, tuyo es su querer,
    Bajo el burlon mirar de las estrellas
    Que con indiferencia hoy me ven volver…

    Volver… con la frente marchita,
    Las nieves del tiempo platearon mi sien…
    Sentir… que es un soplo la vida,
    Que veinte años no es nada(…),

    Tengo miedo del encuentro
    Con el pasado que vuelve (…)
    Tengo miedo de las noches
    Que pobladas de recuerdos(…)
    Encadenan mi soñar

    Volver… con la frente marchita(…),
    Sentir… que es un soplo la vida(…).

    Vivir… con el alma aferrada
    A un dulce recuerdo
    Que lloro otra vez…

    (…) Anche se non l’ho voluto
    sempre si torna al primo amore…
    La strada vecchia dove l’eco disse
    tua è la sua vita, tuo è il suo amare,
    sotto lo sguardo beffardo delle stelle
    che indifferenti oggi mi vedono tornare…

    Tornare…con la fronte appassita,
    le tempia imbiancate…
    Sentire…che è un soffio la vita,
    che 20 anni non sono niente(…)

    Ho paura dell’incontro
    con il passato che torna(…)
    Ho paura delle notti popolate di ricordi
    che incatenano i miei sogni…

    Tornare…con la fronte appassita(…),
    Sentire che è un soffio la vita…

    Vivere… con l’anima prigioniera
    Di un dolce ricordo
    Che mi fa piangere ancora…




    sergio magaldi        

    martedì 3 luglio 2012

    L'EUROPA DI SUPER-MARIO TRA VINCITORI E "PERDENTI DI LUSSO"

    La copertina di Libero dopo la sconfitta dell'Italia con la Spagna



     Come “escono” dall’incontro con l’Europa i due Super-Mario della stampa nazionale? L’uno, Mario Balotelli, consente all’Italia di disputare la finale degli europei di calcio, dopo aver rifilato alla Germania due grandi goal. Anche se la successiva sconfitta con la Spagna, che impedisce alla nazionale di conquistare il suo secondo titolo europeo, a 44 anni di distanza dal primo, sembra relegarlo agli occhi dell’opinione pubblica nel ruolo di “perdente di lusso”.

     L’altro, Mario Monti, torna da Bruxelles con la fama di vincitore, per aver guidato “la rivolta” dell’Europa latina contro l’Europa teutonica. Merito che il Rigor Montis nazionale non esita a rivendicare, a domanda del solito untuoso cronista della Rai, proprio al termine della disfatta subita ad opera della nazionale spagnola, quasi a voler rincuorare i milioni di telespettatori italiani subito dopo la cocente delusione, alla quale ha finito col dover presenziare, nonostante alla vigilia – a quanto è dato sapere – avesse auspicato la non partecipazione italiana agli europei, in relazione allo scandalo del calcio-scommesse.

      A guardar bene, tuttavia, Mario Balotelli esce da vincitore, per aver sostenuto quasi da solo il peso dell’attacco azzurro e per i tre goal, sui complessivi sei, segnati dall’Italia durante l’intera competizione. L’averlo schierato in campo, senza affiancargli una punta di ruolo (Matri soprattutto, ma anche Osvaldo o Pazzini), lasciandolo ai rari assist del pur ammirevole Cassano, del grande Pirlo, o di Montolivo, è una responsabilità che riguarda il tanto celebrato (persino dopo il 4-0 subito con la Spagna!) commissario tecnico della nazionale italiana: l’ ineffabile Cesare Prandelli.

     Al contrario, in che consista la vittoria di Mario Monti al momento non è dato capire. Ha ottenuto lo scudo invocato contro lo spread? E come? Con un fondo, lo European Stability Merchanism (ESM) che scarseggia di mezzi, peraltro forniti anche dagli stessi paesi che se ne dovrebbero servire, e al quale il presidente Monti dichiara in anticipo di non voler ricorrere? Per il cui accesso occorre per giunta presentare un “memorandum di intesa”, dimostrando di essere in regola con le pretese di Merkel e soci?

     Con i due Super-Mario vincono e perdono tanti altri assieme a loro: vince innanzi tutto la Germania che conta (perde quella calcistica che l’Italia di Balotelli ha avuto il piacere di eliminare), che non modifica di una virgola la sua costante volontà di egemonia in Europa. Perde l’Italia e anche la Spagna (non quella calcistica che vince il terzo titolo internazionale consecutivo, impresa mai riuscita ad altre nazionali) per essere state prese in giro. Perdono i partiti politici italiani che sostengono il governo e che si esaltano per la vittoria di Pirro di Rigor Montis. Vince la nazionale di calcio, anche se alla fine esce umiliata, per l’impegno profuso da tutti i suoi giocatori, Balotelli, Pirlo e Buffon in particolare. Perde infine  Cesare Prandelli, per non aver saputo approfittare della mano che la fortuna, questa volta, gli ha teso.

     Infatti, dopo le sconfitte nelle tre ultime partite di avvicinamento agli europei, contro Uruguay, Stati Uniti e Russia, sono arrivati, facendo leva sul blocco della Juve, i tre pareggi (Spagna, Croazia e Inghilterra), la stentata vittoria contro l’Irlanda di Trapattoni e l’eliminazione della Germania grazie ai goal di Balotelli. Con questi risultati, grazie anche alla “lotteria” dei rigori e all’onestà degli spagnoli che non hanno fatto il cosiddetto biscotto con i croati, Prandelli ha ottenuto il diritto di disputare la finale del campionato europeo. La sorte gli ha perdonato gli errori commessi al momento delle convocazioni, la mancanza di un modulo e di una filosofia di gioco, per due anni sempre in bilico tra vecchi schemi e nuove strategie, ma al momento della verità ha preteso che mettesse nella nazionale qualcosa di suo. 

     Cesare non è Super-Mario e come minimo avrebbe dovuto studiare il Portogallo  che ha impedito all’ “invincibile armata” di andare in goal per tutti i 120 minuti della semifinale. Avrebbe dovuto prendere esempio dagli stessi spagnoli che hanno riproposto nella finale gli stessi giocatori e lo stesso modulo della partita d’esordio, che l’Italia aveva pareggiato, rischiando addirittura di vincere. Il 3-5-2 aveva permesso agli azzurri di contenere i formidabili centrocampisti iberici. Riproporlo per la finale, avrebbe dato agli italiani maggiore fiducia in se stessi. Cosa ha fatto invece il nostro commissario tecnico? Ha schierato gli undici (con l’eccezione di Abate al posto di Balzaretti) che avevano sconfitto la Germania, confermando il semi-infortunato Chiellini, e lasciando in campo giocatori che, solo due giorni prima, avevano profuso troppe energie per vincere la semifinale. In più, ha fatto la terza sostituzione quando mancava  ancora molto alla fine della partita, togliendo il solito inconcludente Montolivo (meritevole in tutto l’Europeo solo del lungo lancio a Balotelli per il primo goal alla Germania) per l’altro semi-infortunato Thiago Motta che infatti si è fatto male quasi subito, lasciando l’Italia in 10, quando ancora la partita poteva essere recuperata. 

     Non so se con diversi accorgimenti l’Italia avrebbe vinto, ma almeno sono certo non avrebbe subito l’umiliazione di perdere una finale europea per 4 a 0. Se a questi errori si aggiungono quelli di aver portato con sé due attaccanti non utilizzati e di aver lasciato a casa Matri e ogni altra vera punta, si comprenderà meglio che Cesare Prandelli non esce dall’Europa da vincitore (per il merito di aver conquistato un secondo posto, impensabile alla vigilia), e proprio come Mario Monti, mostra ancora una volta di essere solo un “perdente di lusso”.      


    sergio magaldi