mercoledì 9 gennaio 2013

IL MAESTRO E L'INIZIATO IN THE MASTER DI PAUL THOMAS ANDERSON

THE MASTER, film di Paul Thomas Anderson,  U.S.A., 2012, 137 minuti

 The Master, premiato con il Leone d’argento al Festival del cinema di Venezia e con la Coppa Volpi per i suoi due grandi interpreti [Philip Seymour Hoffman nella parte di Lancaster Dodd e Joaquim Phoenix in quella del marinaio Freddie] ha appena ricevuto tre nomination all’Oscar. E subito mi chiedo se il gran parlare che si fa di questo film, il successo già ottenuto e che quasi sicuramente lo porterà a vincere almeno un Oscar, dipenda da intrinseche qualità oggettive o non piuttosto dal fatto di essere la parziale ricostruzione della vita del fondatore di un’organizzazione settaria, divenuta così popolare negli Stati Uniti, tanto da approdare alla costituzione di una vera e propria chiesa, la Church of Scientology, più nota in tutto il mondo semplicemente col nome di Scientologia, che letteralmente implica un discorso sulla conoscenza e che, da L.Ron Hubbard, suo capo carismatico e dai suoi seguaci, fu definita di volta in volta come una filosofia religiosa, un corpo organizzato di conoscenza, una filosofia religiosa applicata, una vera e propria chiesa con i suoi riti e i suoi ministri.

 Prescindendo da questo interrogativo, e dalla curiosità di sapere cosa sia realmente Scientology e cosa rappresenti ancora oggi a sessant’anni dalla sua costituzione [informazioni facilmente reperibili in rete], converrà giudicare il film di Paul Thomas Anderson, regista e sceneggiatore, per quello che realmente è. La critica appare divisa. Per lo più entusiasta quella americana, con punte di esaltazione, come nel giudizio di A.O. Scott sul New York Times: “Un film imponente, contraddittorio e alla fine meraviglioso. Una storia che mostra l’inganno e la follia della grandezza. La cosa più vicina a un grande film che abbia visto recentemente”; o come in quello di Brian Henry Martin [UTV]:“Per me è un capolavoro, un’esplosione di cinema puro. Se siete annoiati da questo film allora siete annoiati dalla vita”E in effetti, se dovessi scegliere un aggettivo per definire questo film, non direi che è noioso. Anche se di noia parla Gianni Rodolino sulla Stampa: “[…]Anderson, che ha realizzato alcuni film indubbiamente meritevoli, in particolare il precedente Il petroliere del 2007, non è riuscito a rendere affascinante e soprattutto avvincente una storia che appare, nella durata di due ore e mezza, piuttosto noiosa”. Parlerei semmai di un film narcisistico o “troppo innamorato di se stesso” come l’ha definito Rene Rodriguez del Miami Herald.

 L’interpretazione superba di due grandi interpreti – l’uno nella parte del Maestro, pieno di sé, dogmatico, bizzarro poligrafo, sognatore e opportunista al tempo stesso, l’altro in quella del discepolo selvatico, ignorante, misterioso e alcolizzato, reclutato tra i reduci di guerra, agli inizi degli anni Cinquanta – dà luogo ad una vicenda che esclude la noia, ma rimanda all’interrogativo se sia sufficiente da sola a rendere intrigante l’intero racconto. E la risposta è negativa non tanto per le motivazioni “ideologiche” che Curzio Maltese ne dà su Repubblica: The Master di Paul Thomas Anderson non è purtroppo il capolavoro annunciato. Dimenticate la potenza de Il Petroliere. La storia, per quanto negato dall’autore, è del tutto ispirata alla figura di Ron Hubbard, fondatore di Scientology, la potente setta para religiosa che da 60 anni miete soldi in mezzo al mondo, ma in particolare ad Hollywood, all’insegna del pagare per credere. Amici di Hubbard erano i regimi fascisti e razzisti e i milionari spostati. Nemici giurati il comunismo, gli omosessuali, la scienza ufficiale, i medici veri e la psicanalisi, avvertita come una minaccia perché toglieva i clienti migliori”.

 Perché la storia narrata nel film non riesce ad interessare più di tanto, o almeno a non interessare tutti alla stessa maniera? La ragione è forse nelle scelte del regista. In luogo di costruire una storia pregna di significati politici, culturali e religiosi, di osservare il fenomeno Scientology dall’esterno, Anderson sceglie di vederlo dall’interno, con una lente di ingrandimento grazie alla quale osserva da vicino una iniziazione, e lo fa ricorrendo ad un rapporto paradossale fondato su una scommessa del Maestro: domare lo spirito ribelle del neofita più distante dalle idee che egli professa. Così facendo, la prospettiva si modifica e capita spesso che il maestro diventi il discepolo e viceversa.

 In questo senso, mi sembra che il regista abbia ragione nel sostenere che il suo film non è propriamente o compiutamente la storia di Scientology e del suo fondatore, né è – come più di un critico si è affrettato a concludere – la vicenda di una manipolazione delle coscienze e/o del controllo di una mente sull’altra. Tant’è che il marinaio Freddie, sebbene ad un certo punto introietti le tecniche del maestro per avvicinare la psiche degli altri, non rinuncia all’atteggiamento riottoso e dissacrante che gli appartiene da sempre, forse dai milioni di anni in cui, secondo la prospettiva di Scientology, il suo spirito si è venuto reincarnando. E Dodd, il maestro, mentre cerca di domare l’animalità del discepolo, non disdegna l’utilizzo di certe sue misteriose pozioni [che poi tanto misteriose non sono…] per ritrovare la perduta energia né, pur rimproverandolo, evita di sorridere di fronte alle “lezioni” che Freddie, ubbidendo alla propria naturale animalità, impartisce a chi dissente dalla “Causa” o si pronuncia contro il Maestro.

 Maestro e discepolo s’incontrano anche sul tema della dissacrazione. Dodd cerca di estirparla dall’animo del discepolo che non esita a manifestarla pubblicamente. E quanto più il maestro cerca di volare in alto, con discorsi eloquenti dettati dal suo spirito, il pupillo gli ricorda la terra e l’animalità della natura umana: per esempio con un peto sonoro o con un biglietto che egli passa furtivamente ad una giovane segretaria dell’Organizzazione,  mentre tutti pendono dalle labbra del Maestro, chiedendole semplicemente se lei ha voglia di scopare con lui.

 Di contro, nella scena in cui i membri della “Causa” fanno e ascoltano musica – una delle modalità più elevate dello spirito – tra nudi femminili e corpi di maschi interamente vestiti, più che liberalità, desiderio e gioia dell’unione sessuale, traspare un palese richiamo alla categoria dell’osceno, misto ad un inquietante senso del potenziale asservimento di cui la carne umana può essere vittima. Ma è anche un’occasione per riflettere: mentre Freddie vive alla luce del sole la propria istintualità, Dodd e la sua Organizzazione costruiscono prigioni per l’istinto che la forza tremenda dell’inconscio non tarda ad abbattere. Sotto questo profilo, anche la fisicità dei due interpreti, oltre alla loro notevole bravura, c’insegna qualcosa. Dodd, con tutta la sua proclamata spiritualità e che sorridendo chiama spesso “maiale” il discepolo, ha qualcosa nell’espressione del volto rubicondo che, del maiale, richiama idealmente le fattezze. Freddie, con gli occhi semichiusi, il fare vagamente misterioso, il rimpianto e la nostalgia di un amore perduto, la cicatrice di un taglio sopra il labbro, il riso che sottolinea di frequente, più di tanti discorsi, il suo stupore o la sua delusione, ha  qualcosa insieme dell’angelo e della bestia.

 Blaise Pascal, per intenderci, e ricorda la “Querelle de l’existentialisme”, nell’immediato dopoguerra, di Maurice Merleau-Ponty, nel difendere Sartre dall’ “orribile e sozzo” episodio di L’Age de raison, allorché Ivitch, dopo aver bevuto sino a star male, vomita e Sartre narratore osserva: “Un aspro odore di vomito emanava dalla sua bocca così pura, Mathieu respirò appassionatamente quell’odore”. Notava allora in proposito Merleau Ponty [Sens et non sens, Nagel, Paris, 1948]: “Senza alzare il tono e senza cercare il paradosso, si può trovare nella frase di L'Age de raison che tanto urta Emile Henriot come un piccolo sublime, senza eloquenza e senza illusioni, che è, credo, un'invenzione del no­stro tempo. Si parla da un pezzo dell'uomo come angelo e animale insieme, ma la maggior parte dei critici sono meno arditi di Pascal. Trovano ripugnante mescolare l'angelico e l'animale nell'uomo. Occor­re loro un al di là del disordine umano e, se non lo trovano nella religione, lo cercano in una religione del bello”.

 Insomma, ho l’impressione che Anderson non volesse realizzare una “rappresentazione aperta a una serie di interpretazioni storiche e culturali, politiche e ideologiche, religiose e atee”, come avrebbe auspicato Gianni Rondolino. Neppure penso che egli abbia sciupato un’occasione, potendo disporre di due talenti come Philip Seymour Hoffman e Joaquim Phoenix. Il suo film è altro: non è né vuole essere la versione cinematografica più o meno edificante di una storia compiuta, è  piuttosto la descrizione di un incontro tra due esistenze inconsuete, portate a vivere casualmente e in modo radicale la loro condizione, l’una di Maestro, l’altra di iniziato. Il film non è bello, né gradevole, bensì fastidioso e dissacrante, irritante e compiaciuto di sé. Gli basterà sicuramente per vincere almeno un Oscar.

sergio magaldi

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