sabato 9 febbraio 2013

LE PROMESSE ELETTORALI




 Due settimane al voto e le promesse elettorali dei leader politici italiani si fanno sempre più pressanti. In testa, naturalmente, Berlusconi che promette di fare tutto quello che non ha fatto quando era al governo, forte del fatto che lui l’iniqua tassa sulla prima casa [ICI] l’aveva effettivamente tolta, anche se poi fu costretto [ma da chi?] ad approvare l’IMU che l’ha nuovamente introdotta su un’ottava più alta. Al pacchetto già noto, l’inossidabile leader aggiunge ora anche amnistia e condono tombale. Non sorprende così che egli sia anche in questa campagna elettorale il più citato da amici, avversari e addetti ai lavori. Un’ossessione che non ha mai portato bene a chi l’ha provata. Monti non è da meno, e nel grigiore del suo linguaggio, che sa di automatismo a carica teutonica, introduce la nota di colore della promessa di ridurre in un sol colpo IMU, IRPEF e IRAP.

 Non sono da meno gli altri leader politici, tutti, ad eccezione di Bersani, al quale almeno va riconosciuto il merito di non allettare gli italiani a votare per il suo partito [PD], con promesse che non potranno essere mantenute, e addirittura di richiamare i cittadini alla realtà e agli impegni europei che contemplano il Pareggio di bilancio per il 2013 e il Fiscal Compact, con la prospettiva di introdurre a breve, ulteriori tasse per reperire i necessari 70-80 miliardi di euro. Il problema, tuttavia, è che Bersani parla poco o meglio, come scrive Marco Travaglio [Editoriale di il Fatto quotidiano del 6 Febbraio u.s.]: “Biascica, bofonchia, borbotta masticando il sigaro. Non finisce mai le frasi. ‘Sto paese qua, mica siam qui, ‘ste robe lì. Una pentola di fagioli in ebollizione .

 Forse Bersani non finisce mai un discorso perché lo ritiene inutile e pericoloso. Preferisce il frammento dialettale più o meno pittoresco che lascia democraticamente all’ascoltatore la possibilità d’interpretare. Egli ha introiettato la grande lezione della Democrazia Cristiana e sa che vincerà le elezioni, così come ha già fatto con le primarie del suo partito; egli sa che in un modo o nell’altro all’indomani del voto sarà al governo con Monti, il garante europeo che rappresenta per lui l’avversario di oggi e l’alleato di domani, in un gioco delle parti che ha la sua logica elettorale: chi meglio di Monti [in minima parte ci prova anche Giannino con il suo neonato movimento dal titolo troppo lungo per essere preso sul serio] è in grado di intercettare il voto di chi é  deluso dalla politica del PDL e/o fiuta l’odore dei nuovi cavalli [o asini?] alla guida del carrozzone della politica italiana? Un gioco delle parti a tutto campo, direi, perché include anche Vendola, la copertura a sinistra. Il leader delle Puglie è lì a garantire i nostalgici, quelli che non si sentono ancora gli eredi della DC e diffidano dell’abbraccio con Monti. “Mai al governo con Monti” proclama solennemente il buon Vendola, ma intanto molti governi della sua Regione si sostengono con il voto dei Casini e dei montiani.

 Forte di questa strategia che lo copre a destra[con Monti, pronto ad accogliere i transfughi del PDL], a sinistra con Vendola e al centro con Tabacci e con se stesso, in virtù di un anacronistico compromesso storico, il PD si accinge a governare il Paese, nel solco di una tradizione che, con sigle diverse, l’ha già visto negli ultimi vent’anni alla guida dello Stato, direttamente o indirettamente, con i Ciampi, i Dini, i Prodi, gli Amato, i pensionati d’oro della politica italiana, provenienti dal mondo accademico e/o finanziario e tutti, sia pure in diversa misura, collegati ai cosiddetti poteri forti che controllano la politica europea e il primato teutonico del Continente. Perché il PD dovrebbe oggi rifiutare l’alleanza con Monti? E infatti non la rifiuta. Tra le poche cose che Bersani ha detto con chiarezza c’è la dichiarazione che, se anche il partito raggiungesse la maggioranza alla Camera come al Senato, si aprirebbe all’alleanza con il Centro, cioè con Monti. Ma Vendola sembra non capire e Vendola è uomo d’onore…

 Tanto il PD è sicuro della vittoria che minimizza lo scandalo MPS e fa quadrato attorno alla Banca d’Italia  da sempre suo naturale alleato. Tanto Bersani conosce l’indole degli italiani che preferisce non fare promesse elettorali né elaborare programmi puntuali e circostanziati. Sa di essere, malgrado tutto, il piatto forte del regime, essendo divenuto immangiabile quello propinato negli ultimi anni dal centrodestra. Sa che i regimi in Italia non cadono per via democratica o rivoluzionaria, basta farsi garante dei tanti privilegi, rispettare le corporazioni e la Chiesa, onorare gli sprechi. Insomma far finta di cambiare perché tutto resti come prima, secondo i sacri principi del gattopardismo nazionale. Come accadde per il fascismo, crollato dopo vent’anni per cause di guerra, o per la DC, caduta dopo cinquant’anni, non per via giudiziaria come si tende a far credere, ma per entropia e a seguito dell’abbattimento del Muro di Berlino che mutò completamente lo scenario europeo e mondiale.




 Pure, con il suo “bofonchiare” – come dice Travaglio – una cosa almeno Bersani è venuto a dirla con chiarezza in televisione. Per combattere l’evasione fiscale e favorire la tracciabilità del denaro, ha infatti proposto l’abolizione del denaro, quello vero, quello frusciante che ancora oggi possiamo toccare con mano, e di sostituirlo con la carta di credito. E in un impeto di orgoglio nazionale ha rivendicato la pari dignità e intelligenza della vecchietta italiana, rispetto alla vecchietta belga che maneggia da par suo il simbolo del denaro virtuale. Quello che piace tanto a Monti e ai banchieri. 

sergio magaldi

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