giovedì 11 aprile 2013

IL TOTO-QUIRINALE E LE MANOVRE DELLA PARTITOCRAZIA





  Com’è noto, il Presidente Napolitano, con il ricorso alle commissioni dei cosiddetti saggi o facilitatori [è interessante notare che nessuno, a quel che mi risulta, si sia posto l'interrogativo del loro costo per gli italiani, ma forse lavorano gratis…], ha messo in standby la questione della governabilità del Paese, non ha consentito a Bersani di presentarsi alle Camere senza una maggioranza precostituita, non si è dimesso, come pure molti avevano chiesto [si veda in proposito il post del 4 Aprile: Le “ragioni” di Napolitano e quelle di Beppe Grillo]. Atti ineccepibili, a mio giudizio, per non aumentare la confusione e intasare di figure istituzionali il panorama politico italiano, intaccando anche la residua [ammettendo che ne sia rimasta] credibilità internazionale di una classe politica vergognosa: Bersani sfiduciato che sostituisce Monti dimissionario non sfiduciato, il presidente del Senato che sostituisce provvisoriamente Napolitano dimissionario e in attesa dell’elezione del nuovo capo dello stato, un vice-presidente che a sua volta sostituisce provvisoriamente Grasso alla presidenza del Senato ecc…

 Oltre a questi motivi, tuttavia, ce ne sono altri non dichiarati che meglio chiariscono l’operato del Presidente. Con la governabilità del Paese, Napolitano ha congelato anche Bersani, lasciando intatta per lui la possibilità di presentarsi alle Camere, ma con una maggioranza di “larghe intese” e non con “i moralizzatori fanatici” [leggi i grillini] che il Presidente proprio non riesce a digerire, soprattutto perché rappresentano una mina vagante per l’Italia e per l’Eurogermania,  e che in cuor suo ancora ringrazia di essersi rifiutati di votare la fiducia a Bersani. Tanto più che probabilmente non sarà Napolitano a “scongelare” il segretario del PD, in veste di presidente incaricato. Insomma, una sorta di compromesso: non si manda Bersani alle Camere ma neppure gli viene tolto il preincarico per assegnarlo ad una figura designata dal Presidente in una rosa di nomi, magari condivisa da PD e Cinque Stelle.

 Una scelta precisa quella di Napolitano, persino responsabile dal suo punto di vista, perché sostituire Bersani con chi potesse ottenere la fiducia o la non-sfiducia del M5S o, per altro verso, con chi tra i suoi ex-compagni di partito o tra le cosiddette figure istituzionali, fosse in grado di realizzare un governo “di larghe intese”, avrebbe comportato la spaccatura del PD, sempre più simile alla vecchia DC, nell’essere diviso in correnti e sottocorrenti, con spargimento di relativi veleni. D’altra parte, nel convegno celebrativo di Chiaromonte, come lui un “migliorista” del PCI, il Presidente ha precisato la vasta gamma in cui può articolarsi un governo di larghe intese: può andar bene anche quel che accadde nel Luglio del 1976, quando il monocolore di Andreotti ottenne la non sfiducia di Berlinguer.

 In tale prospettiva, Bersani e i suoi hanno iniziato le manovre di “scongelamento”, usando a mo’ di di acqua bollente, Franceschini e Letta, per antico lignaggio maestri eccellenti di operazioni del genere, e la trattativa con il PDL di Berlusconi è ufficialmente aperta. Su quali basi? In una recente puntata di “Porta a porta”, Maurizio Lupi, vicepresidente della Camera, non ha fatto misteri, né giri di parole: un “governissimo” con ministri dei tre partiti della coalizione [PD-PDL-Scelta civica] e allora il centro-destra lascerà al centro-sinistra la scelta del prossimo inquilino del Colle in una rosa di nomi non sgraditi al PDL, oppure un capo dello stato scelto dal centro-destra in cambio della non sfiducia ad un “governo di scopo” a guida Bersani. Sul cavallo, lanciato al galoppo da Lupi nello studio di Vespa, è subito saltata l’intraprendente e affascinante Alessandra Moretti del PD, fino a ieri vicina a Bersani, sostenendo che tra gli Otto Punti di Bersani e i Neo-Otto Punti di Berlusconi non vi sarebbe sostanziale differenza. Perfetto. Se non fosse che il giorno dopo, a “Ballarò”, Robero Speranza, capogruppo del PD alla Camera e pupillo di Bersani, ha negato risolutamente l’affinità sugli Otto punti. Direi non a torto, perché nel PD si parla – tanto per fare qualche esempio – di riforma dell’IMU, mantenimento del finanziamento pubblico dei partiti, soppressione del denaro contante a vantaggio della carta di credito, laddove nel PDL si sostiene la necessità di abolire IMU e il finanziamento della politica e di mantenere la circolazione del denaro contante… Insomma, le affinità programmatiche sembrano esistere solo su frasi generiche relative a misure che possono essere realizzate in un modo o nel suo esatto contrario. Così, per il rilancio dell’economia e del lavoro, ai tradizionali investimenti pubblici sbandierati dal centro-sinistra, mai redditizi in Italia [se non per i partiti, i carrozzoni di stato, la corruzione e le mafie], si contrappone da parte del centro-destra la richiesta di una politica governativa che, snellendo le procedure burocratiche e facilitando con adeguate misure le imprese, favorisca gli investimenti privati e soprattutto sia in grado di rigenerare il profitto, leva considerata essenziale per sempre nuovi investimenti e per il rilancio della crescita e dell’occupazione. Politica economica sostenuta a parole dal centro-destra, mai realizzata negli anni di governo dai suoi tanti ministri pseudo-liberisti.

 Bersani, dal canto suo, dopo aver incontrato Berlusconi, ha ribadito che la trattativa, per una scelta condivisa del capo dello stato, nulla ha a che vedere con la formazione del governo. Come non sapesse che la convergenza di PD e PDL su un nome, porterebbe inevitabilmente il nuovo Presidente a propendere per un governissimo o almeno per una maggioranza della non sfiducia. Alla quale ultima, Berlusconi potrebbe volentieri far finta di piegarsi, rinunciando ad un capo di stato espressione del centro-destra, pur di scongiurare quello che teme di più e pago di essere comunque l’arbitro di un governo Bersani della non-sfiducia che, in pochi minuti, potrebbe far cadere a suo piacimento.

 Cosa Berlusconi teme di più? Non l’elezione di Prodi, come si sente dire in giro, sia perché mi rifiuto di credere che il Movimento Cinque Stelle lo voterebbe, sia perché, prima di tutto, il suo innalzamento al Quirinale farebbe perdere consensi proprio al PD: chi non ricorda il già ineffabile capo dell’Ulivo, ancora il 20 Maggio del 2010 in una lettera al Messaggero, sostenere che “L’ingresso dell’Italia nell’euro rimane come uno dei punti più  alti della nostra recente storia nazionale”? Un euro nel quale siamo entrati non attraverso un referendum tra i cittadini, vietato dalla “costituzione più bella del mondo”, e per di più pagando una tassa! Chi ha dimenticato il pessimo cambio euro-lira imposto all’Italia e servilmente accettato? Chi non ricorda il dimezzamento automatico del reddito dei lavoratori dipendenti e dei pensionati in virtù della conversione della lira in euro? Chi dimentica le dichiarazioni successive di Vincenzo Visco – a quei tempi ministro delle Finanze del governo Prodi – al Fatto Quotidiano, allorché rivelò che l’ingresso dell’Italia nell’euro fu voluto fortemente dall’Eurogermania, per evitare che la debolezza della lira favorisse il commercio dell’Italia a scapito della Francia e soprattutto della Germania, costrette a comerciare in un mondo globalizzato con una moneta più forte e dunque meno competitiva? Chi infine ha dimenticato le recenti dichiarazioni dello stesso Prodi [come Tremonti, un altro folgorato sulla strada di Damasco, dopo l’ubriacatura eurogermanica] circa gli enormi vantaggi che la Germania ha tratto dall’introduzione della moneta unica?



 No, Berlusconi non sarebbe cancellato dalla “geografia politica” [come qualcuno riferisce aver detto Beppe Grillo], se Prodi fosse eletto capo dello stato. Perché un attimo dopo si andrebbe alle urne [a meno che il M5S non appoggiasse il governo Bersani] e il centro-destra vincerebbe alla grande. La vera paura di Berlusconi  è che il presidente della repubblica venga fuori da una rosa di personaggi estranei alla politica militante, ma appartenenti all’area culturale della sinistra. Un capo dello stato che potrebbe fare quello che Napolitano non ha voluto o non ha potuto: affidare la formazione del governo ad una personalità che sappia mettere insieme PD e Cinque Stelle, escludendo il PDL da ogni gioco e costringendo Berlusconi a difendersi nei tribunali con la sola forza dei suoi avvocati. Ipotesi comunque poco probabile, perché imporrebbe l’autosacrificio di Bersani anche se in cambio della vittoria della sua politica. Un segretario del PD così lungimirante avrebbe di sicuro vinto le elezioni!

 In questo quadro, non è da escludere, e anzi è l’ipotesi al momento più probabile, che Bersani cada nel tranello del “presidente condiviso”, anche se non scelto dal centro-destra, in cambio della non sfiducia al proprio governo. Non a caso la delegazione del PD si è rallegrata che Berlusconi abbia accettato i criteri di massima per la designazione del “Nome”. Chi potrebbe essere? Il Toto-Quirinale infuria e i nomi sono più o meno sempre gli stessi, con una leggera prevalenza per chi in passato abbia già occupato trasversalmente la scena politica  e quindi risulti gradito o almeno non sgradito alle due maggiori coalizioni del Paese. Purtroppo qualcuno mi dice che l’identikit maschile più verosimile sembra corrispondere a quello del roditore che nottetempo s’introdusse nelle banche, per erodere i conti-correnti degli italiani, anticipando di oltre dieci anni quanto di recente avvenuto a Cipro, con la differenza che nell’isola sono stati risparmiati i conti dai centomila euro in giù, se non altro con un intento di equità che pare aver colpito principalmente gli evasori fiscali. Non c’è che dire: proprio un bel biglietto da visita per fare il presidente degli italiani per i prossimi sette anni! Seguono da presso, in questa sorta di limbo melmoso, personaggi come Giorgio Pisanu e Lamberto Dini. Pisanu sa troppo di Prima Repubblica e di lui si ricordano le dimissioni da sottosegretario di stato nel 1983, in relazione alle vicende P2. Quanto a  Dini, transitato ripetutamente tra centro-destra, centro-sinistra e di nuovo centro-destra, da sinistra non si può dimenticare il contributo dato alla caduta del governo Prodi.

 Alla figura di un presidente trasversale, si avvicina poi l’ex-sindacalista Marini, sostenuto dagli ex-democristiani del PD che daranno battaglia pur di mandare al Colle, dopo due settennati consecutivi di presidenza laica, finalmente un cattolico, non sgradito al PDL e che in una prospettiva non lontana possa anche favorire la formazione di un “governissimo”. La questione dell’alternanza laici-cattolici non è da sottovalutare in un Paese come l’Italia. Se si guarda al passato, infatti, e agli 11 presidenti eletti, si vede come non si sia mai verificato per tre volte di seguito l’elezione di un capo dello stato proveniente dalla stessa area: ai due laici liberali, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, seguirono due cattolici [Gronchi e Segni], poi l’alternanza per quattro volte di seguito di un laico  e di un cattolico [Saragat – Leone – Pertini e Cossiga], quindi un secondo cattolico di seguito [Oscar Luigi Scalfaro] e infine i due settennati “laici” di Ciampi e di Napolitano. Posso anche sbagliarmi, ma credo che questa volta sarà proprio il turno di un cattolico o almeno di chi ne rappresenti idealmente l’area culturale.

 L’identikit femminile sembra apparentemente corrispondere al nome di Emma Bonino che raccoglie consensi in tutti i partiti e anche nel Movimento Cinque Stelle, che può vantare stima e simpatie in Europa e che è certamente tra le donne che più si sono spese per impegno civile. C’è da scommettere, tuttavia, che anche in questa occasione la candidatura della Bonino a “qualcosa d’importante” cadrà nel nulla, vuoi per il veto vaticano vuoi perché la maggior parte dei cattolici di tutti gli schieramenti ha qualche difficoltà a votarla. Non a caso, pare che Bersani  agiti tra le papabili, non la Bonino ma le ultime arrivate della politica, come la Cancellieri o la Severino, per lo più sconosciute alla maggior parte degli italiani, ma facenti parte di un governo che ha meritato per il suo leader Monti la nomina di senatore a vita, prima ancora di presentarsi alle Camere. Misteri italiani. Sempre che il segretario del PD la donna per il Quirinale non la trovi in casa, nella persona della Finocchiaro, che persino la Lega di Maroni e di Bossi guarda con simpatia e che le donne italiane invidiano perché dispone di una scorta che, a quanto hanno riferito i media, le trascina il carrello della spesa all’interno del supermercato e presumibilmente l’aiuta a caricare gli acquisti all’interno del bagagliaio della sua auto blù. Ma, nella prospettiva dell’alternanza laici-cattolici e delle innovazioni, l’ipotesi di una donna al Quirinale [per la prima volta] potrebbe coniugarsi con l’elezione di una cattolica. Rosy Bindi? Considerata la sua ostilità a Berlusconi, appare più credibile la scelta di Anna Maria Cancellieri di area cattolica e non sgradita né al centro-sinistra, né al centro-destra.

 Nel Toto-Quirinale si può infine scommettere, anche se con minori probabilità di successo, sui nomi di Violante, di Grasso e persino di Letta, quello del PDL e zio dell’altro Letta, vicesegretario del PD meno elle, come lo chiama Grillo. Violante, uno dei “facilitatori” di Napolitano, sembra godere delle simpatie di Cicchitto per la sua “conversione” all’antigiustizialismo. Grasso, appena eletto presidente del Senato e uomo dalla carriera “molto spedita”, potrebbe andarsi a sedere volentieri sulla poltrona del Colle lasciando libera per il PDL quella della presidenza del Senato. Il terzo, infine, Gianni Letta, da sempre consigliere del Cavaliere, antico direttore di un giornale romano a quel tempo di sicura ispirazione filo-fascita, sarebbe l’espressione più genuina dell’inciucio, e per questo è il meno probabile di tutti i candidati, anche se, oltre ad un nipote, ha diversi estimatori tra gli avversari e soprattutto Oltretevere. Come si vede, il gioco potrebbe continuare a lungo e forse non è neanche divertente farlo, considerando le figure dei candidati emergenti. Il problema è Bersani. Sarà coerente sino in fondo, anche a rischio di masochismo? Saprà resistere alle sirene che lo sollecitano da ogni parte? Cadrà volontariamente, stando a quanto lui stesso dichiara, nel tranello del “presidente condiviso” o sarà capace di determinare l’elezione di un presidente del cosiddetto cambiamento?

sergio magaldi

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