mercoledì 29 maggio 2013

LA GRANDE BELLEZZA

Paolo Sorrentino, La grande bellezza, film, Roma , 2013

 Circa due ore e mezzo tra balli, canti e immagini stupende di statue, monumenti, palazzi e paesaggi di una Roma deserta, nell'intento di far rivivere la città di Federico Fellini. Ma il tentativo non ha fortuna: tra “ragazze” cinquantenni che mostrano corpi nudi senza suscitare desiderio, attori falliti [spiace per il poco spazio assegnato ad un grande come Carlo Verdone], attricette in cerca di gloria che passano con disinvoltura dalla velleità di recitare a quella di scrivere, erotomani, cocainomani, illusionisti del trucco per ridare la giovinezza a 700 euro per la visita di qualche minuto, principi che si affittano per le feste dei nuovi ricchi – presumibilmente bottegai, politici e membri delle corporazioni – bambine prodigio che imbrattano tele di gran prezzo, cifra non sempre spiegabile del successo nel nostro tempo, e ancora: macchiette di cardinali, suore e suorine che accudiscono bambini e raccolgono arance e persino una santa che alterna momenti mistico-magici a stati vegetativi, una folla di disadattati della vita che cerca invano di esorcizzare la vecchiaia e la morte, e una pennellata di plebe passata maldestramente sullo schermo con l’eco delle cosiddette parolacce della tradizione romanesca.

 Unico film italiano presente a Cannes, l’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino, ma senza  ottenere riconoscimenti ufficiali. Si dice con apprezzamento della stampa straniera, ma con scarso elogio di quella italiana, più disincantata di fronte all’affresco che, Jep Gambardella, giornalista e scrittore napoletano, trapiantato a Roma da quarant’anni, tenta di fare di una “grande bellezza”. Perché la Roma di Sorrentino è bella, ma fredda e cinica come un’amante senz’anima che riguardi con indifferenza la turba improvvisata dei suoi tanti improbabili e decrepiti amanti. La Roma di Fellini è fieramente plebea, così come mostrano le inimitabili sequenze del film dedicato alla “città eterna” nel 1972:

  La Roma di Fellini è scanzonatamente papalina, come nella celebre Sfilata di moda ecclesiastica, video già riportato su questo blog [vedi il post  Luciano Luciani uomo ballerino coreografo artista], per mostrare un artista, interprete delle “Variazioni sacristianesche per cerimonie di prima classe” nel film di Fellini.

 La Roma di Fellini, benché mostri con La Dolce vita del 1960 i segni di una decadenza inesorabile e le rughe di un’aristocrazia impegnata nel difendersi dalla noia, si mostra amante partecipe e pietosa, mai indifferente. Ma il tempo è passato tra la Roma vista con gli occhi di un giovane aspirante scrittore, stupendamente interpretato da Marcello Mastroianni, e quella che lo scrittore di un solo romanzo, un Toni Servillo altrettanto bravo, giunto ormai in età avanzata, descrive nelle sue “passeggiate”. Il primo vive nel caos esistenziale la speranza del proprio tempo, nel nuovo che avanza, con il boom economico degli anni Sessanta, ma anche lasciando intravedere la deriva del “mostro” che inesorabilmente si annuncia. Nel finale del film, con la folla che si accalca attorno al cadavere della bestia, ma anche nelle parole che una sorridente e giovanissima Valeria  Ciangottini cerca inutilmente di far ascoltare a Marcello.

  Jep Gambardella pretende di cavalcare “il mostro”, la Roma degli anni Duemila, ma il monologo moraleggiante e talora banale non raggiunge mai la coscienza se non per un messaggio individualistico che lascia spazio solo alla vecchiaia e alla morte. E la speranza-avvertimento che Valeria lascia immaginare nel linguaggio muto del finale della Dolce Vita si risolve nel finale della Grande Bellezza, con il volto sorridente di una giovane donna che rappresenta il ricordo dolce e consolatorio del primo amore. Forse l’argomento per il secondo romanzo di Jep Gambardella. E proprio in questo consiste il limite del film di Sorrentino: “Aver voluto imitare il gigantesco Fellini” [come scrive Hollywood Reporter], quasi scena dopo scena, persino il Fellini della Città delle donne, dove alla inquietante galleria femminile e all’emblematico Snaporaz si sostituiscono un anonimo personaggio, sbucato dal nulla di una narrazione senza trama, e la sua galleria di foto fatte giorno dopo giorno dall’infanzia alla maturità. Anche qui segno del funereo e del cimiteriale contrapposto all’archetipo vitale e composito dell’eterno femminino rappresentato nella Città delle donne

 A poco serve aver riempito il film di musiche sacre e profane, talora di pregevole ascolto, talora solo riempitive e assordanti tra un monologo e un finto dialogo. Intendiamoci, il lavoro di Sorrentino ha un impianto costruito a regola d’arte, ma non decolla perché, pur nella bellezza delle immagini di una Roma, vegliata dai sette colli e cullata dal Tevere, lascia a terra la “zavorra” umana di in una città indifferente alle vicende umane, come un dio aristotelico. 

 Qualcosa di più delle “cartoline illustrate” della Roma di un grande maestro del cinema come Woody Allen [vedi il post: L’omaggio di Woody Allen all’Italia che fu, nel film To Rome with love], meno, irrimediabilmente meno, della Roma felliniana. Ma il film di Sorrentino merita ugualmente di essere visto. Anche perché "la dolce vita" se ne va per tutti, come in Vacanze romane, il vecchio e sempre bel canto dei Matia Bazar.


sergio magaldi 










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