domenica 15 settembre 2013

TERZO POTERE





  In uno stato di diritto la divisione dei Poteri – legislativo esecutivo giudiziario – è, come si suol dire, sacra. In una democrazia, tuttavia, che voglia evitare la paralisi, tali Poteri non dovrebbero mai confliggere tra loro. Anche perché il risultato sarebbe proprio il contrario del principio che si pretende affermare in punta di diritto: non la divisione ma la confusione dei Poteri.

 Può anche accadere che in uno stato democratico, o che tale si dichiari comunque nei suoi principi costituzionali, il prevalere di un Potere  dipenda dalla debolezza degli altri, dalla necessità cioè di supplire alle loro inadempienze e manchevolezze. Ben più inquietante, la degenerazione di uno dei Tre Poteri. Nel caso del potere esecutivo, il rimedio è a portata di mano, bastando un voto di maggioranza dei rappresentanti del legislativo per porre fine alla vita di un governo che abbia travalicato dai propri limiti, più arduo il problema quando il sistema degenerativo tocchi uno degli altri due Poteri.

 Per esempio, in un paese in cui sia evidente la corruzione dei giudici e/o il loro atteggiamento fazioso e persecutorio, quali rimedi si configurano da parte di esecutivo e legislativo per porre fine al fenomeno? Pochi, perché in uno stato democratico sono gli organi di governo della magistratura a dover intervenire nei confronti di giudici corrotti o faziosi. Misure parzialmente efficaci possono essere quelle preventivamente introdotte nell’ordinamento costituzionale, come la responsabilità oggettiva dei giudici, la separazione delle carriere tra la funzione inquirente e quella giudicante e soprattutto, anche se di difficile attuazione, norme per scongiurare la progressiva formazione di una corporazione, chiusa in se stessa e autoreferenziale. Il che presuppone, nella prassi concreta, quantomeno l’esistenza di una classe politica illuminata capace di supplire alle mancanze del potere giudiziario senza tuttavia sostituirsi ad esso, perché in tal caso cesserebbe automaticamente di esistere lo stato di diritto.

 Va da sé che la stessa cosa accadrebbe qualora la degenerazione riguardasse contemporaneamente il potere legislativo e quello giudiziario perché, allora, diritto e democrazia diverrebbero vuote formule e i cittadini sudditi sottoposti al capriccio e all’arbitrio di una oligarchia politico-giudiziaria. In tale prospettiva, non rimarrebbe al cittadino-suddito che appellarsi al cosiddetto Quarto Potere [mass media], sempre che questo abbia mantenuto la propria autonomia e non sia stato fagocitato dal denaro e/o dalle manette per i suoi rappresentanti più liberi e recalcitranti.







  C’è infine il caso in cui sia proprio il Terzo Potere a dover supplire all’inefficienza, alla corruttela, alla trasformazione in casta degli altri due poteri. Si dice che questo sia avvenuto in Italia, all’epoca di tangentopoli, quando diversi magistrati sentirono il dovere di cercare di porre fine all’inquinamento della politica, ricevendo in cambio il giusto plauso dei cittadini e alcuni tra loro [ma non tutti!] spianando la strada a se stessi per future e folgoranti carriere politiche. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, ma la classe politica non sembra aver imparato la lezione, o meglio l’ha imparata alla grande e, quasi con più vigore e determinazione di allora, forse con maggiore astuzia, ha ripreso a camminare sulla vecchia strada, preoccupata soltanto che i privilegi di casta non vengano intaccati anche quando, in regime di austerità, si continuano a chiedere sacrifici ai cittadini-sudditi.

 Bene, come in un quadro già visto, anche il Terzo Potere occupa naturalmente il suo spazio, riprendendo con più vigore di prima, in virtù del ruolo avuto nel recente passato e per le esigenze del presente – in un Paese dove la casta della politica è sempre più al servizio di se stessa, limitandosi, per ciò che riguarda l’Italia e i cittadini-sudditi ad eseguire gli ordini di Bruxelles e Francoforte – , la sua giusta azione a tutela della legalità. Può così avvenire che un magistrato, giustamente preoccupato dall’inquinamento ambientale, sequestri un milione e settecentomila tonnellate di acciaio prodotto dall’Ilva di Taranto del Gruppo Riva, il primo nella siderurgia italiana, il secondo in Europa; che ordini il sequestro di 8,1 miliardi di euro nei confronti del Gruppo, tanto valutando il Gip la spesa per “la mancata messa in opera delle strutture necessarie all’ambientalizzazione dello stabilimento di Taranto” e che solo pochi giorni fa la Finanza di Taranto proceda ad un ulteriore sequestro di circa un miliardo di euro, fra beni e servizi, nei confronti della citata proprietà.







 Per carità, i provvedimenti saranno sicuramente tutti giusti e conformi alla legge, ma se fosse vero che, in particolare il provvedimento di 4 giorni fa, impedirebbe al Gruppo Riva, di disporre della liquidità necessaria per continuare a far funzionare i 7 stabilimenti del nord, dovremmo domandarci, alla luce di ciò che si diceva prima a proposito della divisione dei Poteri in uno stato democratico, se non sia intervenuta una misura del potere giudiziario tale da interferire nella sfera di competenza degli altri poteri, considerando che la produttività dell’acciaio, la salvaguardia di 1400 posti di lavoro e la relativa crisi di aziende fornitrici che ruotano attorno alla produzione dell’acciaio attengono alle competenze dell’esecutivo e del legislativo, insomma fanno parte dell’attenzione dovuta all’economia e alla politica da parte di Parlamento e Governo.

 In altri termini o il Gip è ricorso al provvedimento di alcuni giorni fa avendo consapevolezza che l’ulteriore sequestro di beni e servizi non avrebbe compromesso la regolare attività degli stabilimenti del nord gestiti dal Gruppo Riva, cosa che a lume di naso parrebbe anche possibile considerando la consistenza economica dell’impresa, oppure ha torto il segretario nazionale della Fiom Cgil, Maurizio Landini, nel ritenere la chiusura di detti stabilimenti “un atto di drammatizzazione inaccettabile” e, in ogni caso, egli ha torto di sicuro nel richiedere al governo il commissariamento di tutte le società controllate da Riva Acciai, dimenticando o ignorando che il commissariamento dell’Ilva di Taranto si rese possibile in virtù del provvedimento della magistratura, ma che a carico degli stabilimenti del nord non risultano inadempienze e relativi provvedimenti giudiziari.

 Più equo e mirato sembra il giudizio di Marco Bentivogli, segretario nazionale di Fim Cisl, perché, mentre diffida il Gruppo Riva dal dare seguito al blocco delle attività, chiede alla procura di “scorporare dal provvedimento di confisca tutto ciò che impedisca la normale prosecuzione dell’attività produttiva e lavorativa”. Richiesta che viene da un sindacato, e che l’esecutivo non sembra intenzionato a fare propria, né nella persona del ministro Flavio Zanonato, determinato più che altro e unicamente a chiedere al Gruppo Riva la riapertura degli stabilimenti chiusi, né in quella dell’ineffabile presidente Enrico Letta che, nello stile che gli è consueto, si è limitato a esprimere il suo rammarico e la sua solidarietà per i lavoratori rimasti senza occupazione.

 C’è da aspettarsi qualcosa di diverso dal governo delle cosiddette larghe intese? Un esecutivo timido come una ragazzina con l’Europa - avrebbe detto Kafka -, tenuto in bilico sul ciglio del burrone dalla vicenda Berlusconi, solo autoreferenziale nel ritenere di avere bene operato sin qui, più per i provvedimenti annunciati che per quelli finora realizzati, che si sostanziano nella provvisoria soppressione dell’IMU, la tassa più amata dalla sinistra, e nei tanto strombazzati provvedimenti sulla scuola finanziati, secondo consuetudine, con una nuova tassa sulla casa: l’aumento della tassa di registro per chi compra, vende o affitta un immobile.


sergio magaldi

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