giovedì 23 gennaio 2014

CAPITALE UMANO E CAPITALE FINANZIARIO



Human Capital,  il romanzo pubblicato da  Stephen Amidon e giudicato da Jonathan Yardley, critico del “Washington Post”, tra i migliori cinque romanzi del 2004, non risente negativamente della trasposizione cinematografica realizzata da Paolo Virzì, benché siano trascorsi dieci anni dalla sua uscita e l’ambiente in cui si svolge la narrazione non sia quello del Connecticut ma quello della Brianza. Il film si adatta bene all’Italia dei nostri giorni e più in generale a questa fase storica della globalizzazione, in cui il capitale finanziario detta tempi e modi delle dinamiche sociali. Con la realtà che è sotto gli occhi di tutti: tassare sempre di più il cittadino divenuto ormai suddito, perché lo stato possa mantenere il suo apparato senza finire in bancarotta, disinvestire nella produzione di beni, creando disoccupazione e di conseguenza forza lavoro a buon mercato, aumentare in modo esponenziale il tasso di povertà perché la ricchezza si concentri nelle mani dei pochi che detengono il capitale finanziario.    




 Il contrasto tra il cosiddetto capitale umano – inteso come il valore monetario attribuito alla vita umana dalle compagnie di assicurazione – e  il capitalismo produttivo, c’è sempre stato, secondo una logica che ubbidiva alla contrapposizione storica  tra capitale e lavoro. Il fatto nuovo e sotto gli occhi di tutti è l’insorgere di una nuova e sempre più preponderante forma di organizzazione e distribuzione della ricchezza: il capitalismo finanziario, di fronte al quale il capitale umano si riduce a pochi spiccioli.

 La dialettica hegeliano-marxiana [tesi-antitesi] si è infine risolta in una sintesi che non è quella vagheggiata dal materialismo storico e/o dall’idealismo metafisico e ubbidisce ad una logica prima d’ora sconosciuta che cementa di fatto l’alleanza tra capitalismo delle merci e lavoro salariato contro il capitalismo finanziario dell’età della globalizzazione. La lotta è impari, perché alla piccola e media imprenditoria viene a mancare il credito gestito dalle banche per conto dell’alta finanza e il lavoratore sarà costretto ad accettare la diminuzione di valore della forza lavoro che è anche l’unico bene di cui dispone. Può così accadere che l’imprenditore si trasformi a sua volta in lavoratore salariato o sia portato a disinvestire dalla produzione di beni, merci e servizi per investire nel mondo della finanza. Incentivato anche dal diverso sistema di tassazione che, per esempio, in Italia è di circa il 50% sul capitale produttivo e il reddito da lavoro e tra il 12 e il 20% sul capitale finanziario.

 È  un po’ quello che accade a Dino Ossola [Fabrizio Bentivoglio], l’agente immobiliare brianzolo del film di Paolo Virzì che investe nella finanza tutto quello che ha e anche quello che non ha. L’occasione gli viene dal rapporto di amicizia sentimentale che lega sua figlia Serena [Matilde Gioli, in una interpretazione efficace e tanto più sorprendente trattandosi quasi di un’esordiente] al figlio di uno squalo della finanza. Dino Ossola e Giovanni Bernaschi [Fabrizio Gifuni] cominciano con una partita di tennis insieme per poi legarsi in un rapporto d’affari dove, fin dall’inizio, è sin troppo evidente chi finirà per perdere e sarà disposto a tutto pur di non soccombere.

 La Lega Nord non ha gradito la rappresentazione della Brianza quale emerge dal film di Verzì, tra speculatori arricchiti e piccoli imprenditori che si aggrappano ai primi con ogni mezzo, lecito e illecito, pur di sfuggire alla crisi. E soprattutto non ha sorriso della macchietta del consigliere di amministrazione del teatro che Carla Bernaschi [Valeria Bruni Tedeschi, in una interpretazione fisicamente ed emotivamente inappuntabile], moglie di Giovanni, intende restaurare dopo averlo ricevuto in dono dal marito. Col fazzoletto verde che gli spunta dal taschino, il cellulare che lo avverte delle chiamate con il Va’ Pensiero, e con la proposta di  far inaugurare il teatro dal coro della Padania. Mancanza di spirito di alcuni dirigenti leghisti e/o rifiuto di accettare una realtà che l’esigenza dello spettacolo porta di necessità ad estremizzare?

 Non meno interessante – ancorché si svolga su un terreno positivo in cui, a differenza degli uomini,  si muovono tutte le donne del film – è il confronto tra Roberta [Come sempre un’ottima Valeria Golino] la compagna di Dino, e  Carla, la moglie di Giovanni. Dove la prima, anche in virtù della sua professione, si dimostra particolarmente sensibile verso il mondo che la circonda, la seconda, benché appaia china su se stessa e si conceda momenti di bovarismo – per evadere dalla gabbia d’oro in cui l’ha chiusa il cinismo del marito – manifesta un interesse culturale che sa di nostalgia per il “tempo perduto” e un bagliore di coscienza nel rimproverare al marito di essere tra quelli che hanno scommesso sulla rovina dell’Italia e che hanno vinto. Salvo poi a sentirsi rispondere da Giovanni: “Siamo… tra quelli che hanno scommesso…”.

 Giovanna Trinchella su Il Fatto Quotidiano del 12 Gennaio parla del lavoro di Virzì come di un film imperfetto: “ […] fa lasciare la sala cinematografica con un senso di insoddisfazione frustrante perché, nonostante la bravura del cast, il nitore della fotografia, la regia equilibrata, risulta monco. La divisione in quattro capitoli – Dino, Carla, Serena e il Capitale umano – trascura emotivamente e narrativamente proprio quella che avrebbe dovuto essere la figura più importante delle pellicola ovvero il ciclista che muore dopo essere stato investito. Un personaggio questo – con cui il regista avrebbe dovuto farci entrare in empatia – e che invece viene relegato nello spazio di una figurina; inserito a stento nell’album principale. Un tassello quasi insignificante, neanche un comprimario. Messo lì in una tabella, come quella della quantificazione del risarcimento dei danni.” 

 Più che di “insoddisfazione frustrante”, parlerei di sospensione temporanea del giudizio, al momento di uscire dal cinema, per un film che ha tutti gli ingredienti per essere considerato ottimo, cui pure manca qualcosa per emozionare. E non si tratta di quello che la Trinchella immagina perché, se Virzì avesse aggiunto al film un capitolo intestato al cameriere-ciclista, alla vittima, avrebbe finito probabilmente con lo sminuire proprio ciò che ha inteso sottolineare: l’insignificanza che la vita ha nel nostro tempo, simbolicamente espressa dalla cifra che le compagnie di assicurazione assegnano al capitale umano.







 Perché allora un film, cui non manca nulla, e che mette il dito efficacemente sulla crisi italiana ed europea, non arriva ad emozionare lo spettatore? Intanto perché, con l’eccezione del finale [e del “finale del finale” diverso da quello del romanzo] appare talora scontato nelle sequenze narrative e soprattutto perché ha l’aria di un compito ben fatto, impeccabile persino, dove tuttavia è assente il colpo d’ala della fantasia, che è parte integrante della finzione cinematografica e di ogni espressione artistica.


sergio magaldi    

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