giovedì 5 giugno 2014

VINCIAMO NOI: proclama elettorale o verità dialettica?




 Avevo immaginato, per la stima che ho nei confronti dell’intelligenza di Sergio Di Cori Modigliani, che Vinciamo Noi – una sorta di manifesto politico dei 5 Stelle, pubblicato per le edizioni di chiarelettere alla vigilia delle elezioni europee, con tanto di prefazione di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio – non fosse un pamphlet  “usa e getta”, un proclama per tenere alto il morale degli elettori del Movimento e/o per attrarre simpatizzanti e indecisi col mito della vittoria “ineluttabile”. La lettura approfondita di Vinciamo noi ha confermato la mia idea.

 Resta il fatto che il “Vinciamo noi”, ripetuto ossessivamente come un mantra nel corso della campagna elettorale e rilanciato sotto forma di manifesto a pochi giorni dal voto, avrebbe dovuto generare qualche dubbio circa la bontà della strategia del Movimento. Non solo perché la storia e la cronaca mostrano abbondantemente che proclami di questo genere, lungi dall’essere propiziatori, sono spesso male auguranti, ma anche perché nel caso specifico rischiavano di trasformare le elezioni europee in un referendum pro o contro Grillo.

 E invece l’hastag #vinciamonoi è stato il coronamento di una campagna elettorale percepita più contro tutto che a favore di qualcosa. Naturalmente non che questo sia vero. Ma, persino la promessa del reddito di cittadinanza per tutti, coniugato insieme alla proposta di abolire Expo 2015, è parsa una misura incauta e fuorviante rispetto all’urgenza della tutela dei posti di lavoro e al problema della disoccupazione giovanile. E l’annuncio di voler istituire, all’indomani della “vittoria ineluttabile”, processi digitali [direi sacrosanti] nei confronti di politici, imprenditori e giornalisti, colpevoli tutti di aver “spolpato” il Belpaese, se è suonata come musica gradita alle orecchie dell’antipolitica, è apparsa minacciosa e sgradita ai tanti che in Italia temono per la perdita dei propri privilegi, piccoli o grandi che siano. Non a caso e col senno di poi, il documento dello Staff di comunicazione del M5S entra nel merito di una campagna elettorale giudicata inopportuna e, a proposito del “Vinciamo noi”, parla di doppio “errore strategico”: per un verso gli altri partiti hanno reagito con una vera e propria chiamata alle armi contro l’esercito dei grillini, per altro verso, una fascia importante dell’elettorato giovanile ha avuto così tanta certezza nella vittoria, da andarsene al mare, disertando le urne.

 È chiaro che questa analisi non basta da sola a spiegare l’esito del voto. Non gli oltre 11 milioni di voti raccolti da Renzi - a fronte di una percentuale “democristiana” di consensi che sfiora il 41%, ma che non deve trarre in inganno perché calcolata sulla base del 58% degli aventi diritto al voto - e neppure la perdita di circa due milioni e mezzo di voti da parte del Movimento Cinque Stelle. La verità è che Renzi ha saputo mettere insieme i piccoli imprenditori veneti - che nelle elezioni di Febbraio 2013 avevano votato 5 Stelle, abbracciando in toto le ragioni dell’antipolitica - e la buona borghesia lombarda, raggiungendo percentuali da capogiro: oltre il 46% al Nord e più del 43% nel Nordest. Lo ha fatto non sulla base delle solite e generiche promesse dei passati governi, ma innescando un processo per dare speranza, con i primi tagli della spesa pubblica, con la diminuzione del 10% dell’IRAP, proseguendo con più determinazione nel rimborso dei crediti che le imprese vantano nei confronti della Pubblica Amministrazione, con il tetto sugli stipendi dei dirigenti pubblici, con le riforme annunciate della politica e della burocrazia, e in particolare con la nuova legge elettorale già approvata da un ramo del Parlamento e che ha come fine la garanzia della governabilità. E per quel che non ha fatto, Renzi ha lasciato intendere che le responsabilità sono dei Palazzi della politica e delle corporazioni, lanciando un implicito appello a fargli fiducia contro quelli che remano contro di lui. Non basta, perché, vera ciliegina sulla torta, Renzi ha elargito 80 euro, sottoforma di taglio fiscale, a ciascuno dei redditi di lavoro compresi tra gli 8000 e i 25000 euro annui, vincolando a sé milioni di cittadini tradizionalmente vicini alla sinistra. E a chi non li ha dati, li ha promessi, all’interno dello stesso blocco sociale: a beneficiarne, alla prossima occasione, saranno i pensionati con meno di 1500 euro mensili.

 Ce n’è a sufficienza per spiegare le ragioni della straordinaria vittoria di Renzi contro Grillo. Inoltre, mentre il primo si è accontentato di dire che gli sarebbe bastato un voto in più del suo avversario, il secondo ha ostentato la certezza della vittoria. Renzi ha saputo cementare attorno lui esigenze e interessi diversi, persino pezzi dell’antipolitica, senza che con ciò si possa parlare di interclassismo democristiano, che era ben altro perché si basava sulla stabilità del voto, sugli interessi consolidati di una società in espansione economica, sulla militanza politica dei cattolici e sull’anticomunismo di facciata. Giustamente il segretario del PD, nonché Presidente del consiglio dei ministri, respinge da sé il peccato originale che lo vuole democristiano. A parte il fatto che per ragioni anagrafiche egli non ha mai militato nella Democrazia Cristiana, ma nella Margherita, e che si è più volte espresso contro le “democristianerie” di certi suoi colleghi [Letta compreso], non c’è dubbio che l’operato di Renzi, che mira a favorire i ceti imprenditoriali e i ceti popolari, a danno della classe media, sempre più oberata di tasse, appare perfettamente in linea con la tradizionale politica della sinistra di governo, con in più una buona dose di dinamismo mai riscontrata in passato da altri esponenti della sua stessa area politica. Senza neppur voler considerare che a lui si deve l’adesione del PD al Partito Socialista Europeo [PSE].

 Dal canto suo, Grillo ha saputo parlare solo all’antipolitica e soprattutto ha generato ansia tra gli elettori [come afferma anche il citato documento del suo Movimento], lasciando intravedere il pericolo di un salto nel buio, insieme con lui. Proponendosi come l’unica alternativa a Renzi - additato come il vero garante del Sistema - l’artista genovese ha finito per convincere una fetta di cittadini cosiddetti moderati, grazie anche al concorso di sondaggi improbabili e forse interessati, a voltare le spalle a Berlusconi e a sostenere l’ex sindaco di Firenze come il solo leader in grado di contrastare la minaccia da lui rappresentata per l’ordine costituito e i privilegi consolidati. Non a caso i voti a Renzi sono arrivati non solo da Scelta Civica [oltre un milione], ma anche da Forza Italia [650.000 circa].

 Tutto ciò premesso, appare evidente come nelle analisi di Sergio Di Cori Modigliani, il “Vinciamo noi” si proponga come il manifesto politico di una rivoluzione in corso e che la fede nella vittoria non sia un’affermazione dogmatica, né un programma a breve scadenza, ma nasca da un’analisi che, per quanto inverificabile, almeno negli esiti, poggia sui presupposti nobili della dialettica hegeliana. Proverò a riassumerla nei principali punti in cui si articola:

1)    Tutti i partiti tradizionali sono strutturati in maniera verticale e il rapporto tra i dirigenti e militanti avviene tramite i capibastone e i burocrati funzionari, pagati con denaro pubblico. Con il risultato della totale emarginazione da ogni scelta politica del cittadino, divenuto sempre più un suddito vessato dalle tasse e dalla rapacità delle caste delle lobby e della politica. Solo i 5 Stelle, che non a caso sono un movimento e non un partito, hanno una struttura orizzontale dove “ogni partecipante interpreta la propria attività come ganglio, nodo di congiunzione tra persone diverse, luogo di passaggio e di attivazione di energia”[p.7]. La conseguenza è che mentre i partiti tradizionali si basano su una organizzazione piramidale e gerarchica e sulla logica della democrazia rappresentativa che svincola l’eletto dal mandato elettorale, il Movimento Cinque Stelle elimina ogni distinzione tra vertice e base, grazie al fatto che ogni decisione è presa online e che ogni eletto a vario titolo nelle istituzioni repubblicane è solo “il portavoce “ o “la portavoce” dei cittadini, con il chiaro passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta, secondo un’esigenza di partecipazione politica che si manifesta sempre più come improrogabile.
2)     I Cinque Stelle sono un movimento post-ideologico, nel senso che non si fondano su un’ideologia o su una determinata teoria economica e che non propongono agli aderenti il raggiungimento di una particolare forma di illuminazione che non sia quella che ciascuno di loro ha già acquisito individualmente, attraverso la consapevolezza della necessità e della giustezza del bene comune.
3)     Il punto centrale della “verità dialettica” del vinciamo noi si basa su una breve analisi storica che, risalendo alle origini dell’avventura umana sul pianeta, distingue uomini e donne in raccoglitori e seminatori. Furono quest’ultimi a creare le condizioni dello sviluppo e della libertà, grazie ai primi “insediamenti stanziali”, avvenuti nella “fertile valle della Mesopotamia”, con l’invenzione dell’agricoltura, in uno scenario grandioso e suggestivo che è quello descritto nella Bibbia [p.23]. La situazione dei primordi – osserva l’autore – si ripropone oggi con i cittadini trasformati in una massa di “eterni raccoglitori […] dediti a uno sfruttamento selvaggio e suicida del proprio ambiente e territorio, e che socialmente praticano «un vuoto consumismo a perdere», abituati, per l’appunto, a raccogliere risorse avendo rinunciato alla grandiosa esperienza di esserne dei costanti e quotidiani produttori”[p.24].
4)     L’altro punto fondamentale del processo che porterà sino alla vittoria finale è rappresentato dalla diversa odierna consapevolezza tra chi ritiene di star vivendo all’interno di una crisi ciclica del sistema capitalistico e chi ritiene che siamo all’alba di una gigantesca rivoluzione planetaria [p.26]. E i segni di questa rivoluzione incipiente – di cui il Movimento Cinque Stelle è consapevole strumento – ci sono tutti, osserva l’autore. La storia mostra che ogni rivoluzione scaturì dalla concomitanza di tre fattori principali: a) una nuova scoperta tecnologica b) una nuova forma di energia c) una nuova consapevolezza collettiva. Il Web, con “la sua capacità di interconnettere ogni individuo con il resto del mondo” [p.29] rappresenta il primo fattore, l’energia rinnovabile che si va sempre più diffondendo e che a breve consentirà di ottenere un’autosufficiente produzione di energia realizzata da fonti rinnovabili ed ecologicamente sostenibili, ne rappresenta il secondo [p.31],  e infine il Movimento, come portatore della triade di Chiarezza, Trasparenza e Coerenza, ne rappresenta il terzo [p.34].

 Nelle successive pagine del volumetto, sono ricordate le sei proposte di legge che nei primi 125 giorni di vita del nuovo Parlamento, uscito dalle elezioni politiche del Febbraio scorso, sono state presentate dal M5S sia alla Camera che al Senato e che sono state tutte insabbiate e bocciate senza mai arrivare alla discussione in aula [pp.36-38]. Si tratta: 1) dell’immediata e totale abolizione del finanziamento dei partiti, con la costituzione di un fondo a favore delle piccole imprese più disagiate. Ciò di cui i 5 Stelle hanno dato concreto esempio, rinunciando in favore degli artigiani agli oltre 42 milioni di euro di finanziamento pubblico, nonché a parte degli emolumenti spettanti ai loro parlamentari, 2) della richiesta alla Bce di un prestito di 120 miliardi di euro da girare alle imprese creditrici “in modo da far scattare immediatamente un meccanismo virtuoso del volano dell’economia con un aumento dei consumi interni e il blocco dell’emorragia industriale” [p.37], 3) dell’immediata abolizione dei sussidi e dei finanziamenti dell’editoria, 4) della rinegoziazione del contratto stipulato dal ministero della Difesa per l’acquisto degli F35, 5) dell’istituzione di un reddito di cittadinanza, 6) dell’approvazione di un decreto legge per istituire la distinzione “tra banche d’affari a carattere speculativo e banche di risparmio e credito” [Ibid.].

 Segue l’illustrazione del programma del Movimento per l’Europa, già elencato alle pp. XI-XII in 7 punti: 1) Un referendum consultivo per la permanenza nell’euro, 2) l’abolizione del Fiscal Compact, 3) l’adozione degli Eurobond, 4) l’alleanza tra i paesi dell’Europa meridionale per un’autentica politica comunitaria, 5) un piano d’investimenti per l’Italia che esca dal vincolo del 3% del rapporto PIL-debito pubblico, come avvenne in passato per la Germania e come avviene oggi per la Spagna e per la Francia, 6) un piano di finanziamento per l’attività agricola e l’allevamento, 7) l’abolizione del pareggio di bilancio.

 Di particolare interesse, infine, le ultime pagine, allorché l’autore si sofferma sul ruolo degli intellettuali e degli artisti, dei poeti e degli scrittori nella realtà italiana. Tema da lui già trattato con maggiore ampiezza e profondità di analisi in altri luoghi. L’emarginazione progressiva della dimensione culturale ha finito col fare del dibattito sociale la platea dove si parla tra addetti ai lavori unicamente di soldi e di economia, con l’alibi che così facendo si aiuterà a salvare l’Italia: “[…] Date pure fiato a ragionieri, commercialisti, tributaristi, notai, economisti, burocrati, bancari, e fate credere alla gente che saranno loro a salvarla.
 Avrete messo in ginocchio gli abitanti di una nazione. Perché avrete mandato in default il loro cervello. E in poltiglia la loro anima. Da solo, ciascuno camminerà verso il proprio Gulag Invisibile. Senza neppure sapere che ci sta andando” [p.77].

 Chiudono il libro edito da chiarelettere: il Codice di comportamento ad uso dei deputati italiani ed europei del M5S e il testo del Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi per promuovere la nascita dell’Europa unita, libera e federata.

 Non entro nel merito dell’analisi proposta da Sergio Di Cori Modigliani che, insieme a indubbie suggestioni, presenta schematizzazioni talora semplicistiche, dovute probabilmente alla necessità di chiudere in fretta un discorso utile per l’agone elettorale. Resta vero che il “Vinciamo noi” scaturisce più da una disamina – giusta o sbagliata che sia – dei processi socioeconomici in corso, che dalla certezza, forse ingenuamente maturata, di una vittoria elettorale. Da questo punto di vista, e naturalmente solo da questo punto di vista, la formula lanciata durante la campagna elettorale può benissimo tradursi in quel “Vinciamo poi”, in cui è stata subito ribattezzata con ilarità dai vincitori di oggi.

 In altri termini, Renzi dovrà mostrarsi capace di gestire i tanti consensi, frutto di fortunate coincidenze ed espressione di un voto quanto mai volatile, determinato non dalla supremazia della speranza sulla paura, come egli ha detto, ma dalla paura e dalla speranza coniugate insieme da un elettorato che teme l’ignoto e che si attende molto da lui, e che ritrova nei suoi propositi molti degli stimoli lanciati in passato dal leader del Movimento Cinque Stelle. Il quale Grillo, ben prima di conoscere l’esito del voto, nella prefazione per questo libro, redatta insieme a Casaleggio, ha scritto: “Siamo ancora qui, «ma non dovevamo rivederci più?». Non sono riusciti a cambiare il futuro, né a cambiare noi. Le elezioni europee, comunque vadano, le abbiamo vinte […]”. E in effetti l’aver ottenuto il 21% del consenso elettorale, l’essere ormai di fatto l’unica forza di opposizione, fa del Movimento Cinque Stelle, non una meteora, come in passato lo fu L’Uomo Qualunque, ma una realtà vincente che la progressiva informatizzazione del Paese dovrebbe contribuire a far espandere sempre di più e che indirettamente offrirà materia a Renzi per realizzare le sue riforme, anche se indigeste al suo stesso partito e ai suoi alleati. Da tempo, l’ex sindaco di Firenze continua a ripetere con onestà intellettuale che, o gli riuscirà di cambiare l’Italia, o sarà  Beppe Grillo con i suoi a cambiarla.

sergio magaldi

                                                                                                                                                         


4 commenti:

  1. Concordo sul fatto che il mantra l'elettore dopo un pò lo percepisce come forzato e cioè come una fregatura.
    Resta il fatto che invece sbaglia nel giudicare il reddito di cittadinanza (minimo garantito) un qualcosa che penalizza il lavoro. Anzi.La letteratura giuslavorista e l'esperienza internazionale dimostrano che è il solco di separazione tra precariato e flessibilità.
    All'Italia nessuno potrebbe vietare un rmg workfare come in Danimarca.Vorrei sapere se Sergio Magaldi (che stimo) sa che il jobs act è un crimine sociale e molti come me non hanno il tempo per filosofeggiare attendendo che il PD diventi un partito socialdemocratico. Anche perchè è una nuova DC.

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  2. Grazie per la stima. Sì... può darsi benissimo che il PD sia la nuova DC, ma questo non dipende da Renzi, bensì semmai dalla vecchia nomenklatura del PC.

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    1. Grazie della replica! Io penso che Matteo Renzi sia abilissimo nella PNL e la usa per alimentare la deflazione salariale. Purtroppo sì la colpa è dei PC e Renzi è solo il risultato della loro corruzione.
      Fossero stati coerenti ed onesti non avrebbero partorito uno che svenderà tutto lo svendibile alle stesse multinazionali che hanno creato la crisi.
      Saluti!

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    2. Apprezzo sempre i suoi commenti, ma spero proprio che la sua profezia non si verificherà!

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