giovedì 5 maggio 2016

LE CONFESSIONI

Le Confessioni, regia di Roberto Andò, Aprile 2016, Italia-Francia, 100 minuti


 Un film sulle dinamiche del potere, scrive Alessandra Peluso in rete su "Affari Italiani". C’era davvero bisogno di Le Confessioni di Roberto Andò per comprenderle? Per sapere che le decisioni che riguardano le condizioni materiali di esistenza [e non solo] di miliardi di individui sono prese dai ministri dell’economia di un ipotetico G8, riuniti in terra tedesca attorno al direttore del Fondo Monetario Internazionale, tale Daniel Roché, interpretato dall’ottimo Daniel Auteuil? Che a tali riunioni è bene invitare autorevoli esponenti della società civile per far finta di garantire l’osservanza dei diritti umani? Nella fattispecie, una scrittrice di libri per l’infanzia, famosa anche per la sua lotta contro le disuguaglianze [Connie Nielsen], un noto cantante [Johan Heldenberg] che dirige una prestigiosa Ong [Organizzazione non governativa a scopo umanitario], un monaco certosino dotato di grande carisma [un Toni Servillo, grande come sempre].

 Se è vero, come lascia chiaramente intendere il film, che tutta la politica si riduce oggi ad economia [ma non è stato sempre così? Qualcosa il buon vecchio Marx ce l’ha insegnata!], perché la narrazione si incentra tutta su un potere di cui non è difficile intuire la strategia e le mosse, mentre nulla lascia trasparire circa i burattinai che dietro le quinte dirigono i pupi di volta in volta prescelti per assicurare l’Ordine [O il Disordine, secondo il punto di vista] Mondiale?

 Paolo Mereghetti osserva giustamente sul Corriere che “Le Confessioni”di Andò non ci fanno scoprire nulla perché “la sceneggiatura (del regista e di Angelo Pasquini) finisce per cadere nella trappola di un generico complottismo moralista, dove non c’è niente da scoprire e la tesi di partenza (i responsabili dell’economia mondiale sono il male, a priori) toglie forza al film perché talmente rigida da non permettere alcuna possibile evoluzione”.

 La mia impressione è che l’intento del film – partendo dal presupposto che le decisioni della politica e dell’economia siano prese a vantaggio di ristrette oligarchie e sempre contro le masse – sia quello di esorcizzare il potere, mostrando “…Di che lacrime grondi e di che sangue…” e portandolo a “confessare” se stesso. Ma i segreti che il direttore del Fondo Monetario e il ministro italiano [Pierfrancesco Favino, ancora una volta poco convincente interprete di ruoli politici] confessano al monaco Salus, come pure l’immancabile tentativo di risolvere il film in un thriller, con la morte inquietante di uno dei protagonisti, non hanno la forza per accendere la curiosità dello spettatore, anche se raggiungono lo scopo di spostare l’attenzione sull’enigmatico religioso.

 Il film si converte così, da una lettura scontata delle dinamiche del potere, in una metafisica del reale a sfondo mistico e magico. Una filosofia che pone l’accento sull’insanabile contrasto tra esercizio del potere e misticismo naturalistico, dal quale ultimo soltanto sembra poter venire la speranza e la salvezza. Una lettura anche accettabile, in fondo, se non fosse che il linguaggio ricorre ad un vocabolario già ampiamente utilizzato, finendo col proporre una sintesi di maniera e talora fuorviante. Il clima – come è stato osservato da più parti – è quello di Toto Modo di Sciascia, portato sullo schermo da Elio Petri con ben altro vigore. La location e il ritmo troppo rievocano, senza neppure sfiorare il modello, le eleganti suggestioni di Youth di Paolo Sorrentino. Il monaco certosino, al di là della bravura di Toni Servillo, è figura costruita tra il Guglielmo di Baskerville di Il nome della rosa e i santi Agostino e Francesco e, perché no – come osserva Maurizio Acerbi su Il Giornale – persino strizzando l’occhio all’attualità di Papa Francesco. L’ambizione di affidare al linguaggio degli uccelli il senso ultimo e trascendente della realtà, il contrasto natura-civiltà, l’apologia del silenzio e della solitudine, fa venire in mente Uccellacci e Uccellini di Totò e Pier Paolo Pasolini. Lì, gli uccellacci erano i falchi, qui sono gli uomini che controllano il potere economico globale. Lì il corvo è l’intellettuale di sinistra che fallisce nel suo compito e verrà divorato. Qui non ci sono uccelli cattivi e neppure moralisti velleitari come il corvo di Pasolini: c’è l’Uirapuru, il passero “sacro”, il cui canto, come un lungo ed armonico fischio, ha il potere di silenziare l’intera foresta amazzonica. La lezione è: se non si fa silenzio dentro di noi e fuori di noi, nessuna impresa è possibile. Ma la solitudine del passero leopardiano o piuttosto la voce del povero del Salmo 101 sono davvero veicolo di salvezza, come vorrebbe far credere con l’esempio il monaco Roberto Salus del film? O non rappresentano la consapevolezza dell’inutilità della lotta, la preghiera e insieme la speranza rivolta unicamente al Signore dell’Universo? Recita il Salmo: Signore, ascolta la mia preghiera, /a te giunga il mio grido di aiuto./ Non nascondermi il tuo volto/nel giorno in cui sono nell’angoscia./Tendi verso di me l’orecchio,/quando ti invoco, presto, rispondimi! / Svaniscono in fumo i miei giorni/e come brace ardono le mie ossa./Falciato come erba, inaridisce il mio cuore;/dimentico di mangiare il mio pane. /A forza di gridare il mio lamento/mi si attacca la pelle alle ossa./Sono come la civetta del deserto,/cono come il gufo delle rovine./Resto a vegliare: sono come un passero/solitario sopra il tetto”.







 Nelle Confessioni di Andò c’è però anche l’Upupa e il misticismo naturalistico si stempera all’improvviso nella magia. Tutta la tradizione rappresenta questo uccello come dotato di grande potere, tant’è che il monaco in una sequenza del film si identifica con lui: scompare di scena mentre parla e nel cielo appare una grande upupa. Compagno inseparabile di Salomone, questo uccello era capace di penetrare con lo sguardo tutta la terra come se questa fosse una sfera di cristallo. È tra i pochi animali ammessi nel paradiso islamico, per Agrippa è il primo dei sette uccelli planetari, per Paracelso è il Saturno degli uccelli e conosce il passato, il presente e il futuro, per Giordano Bruno è il volatile di cui si serve Mercurio per trasmettere i propri messaggi.

 E ancora un altro animale appare nel finale del film: il cane di uno dei potenti. Talora feroce, diviene mansueto grazie al monaco, prende il nome di Bernardo e segue le orme del religioso che si allontana in solitudine. Nel simbolismo degli antichi il cane rappresenta il guardiano della soglia. Di una umanità nuova che si sottrae al disordine erratico della vita precedente e diviene capace di costruire una civiltà altra e diversa? È questo il messaggio del film? La mansuetudine, il silenzio e l’ascolto della natura, la trascendenza e il magismo sono le sole armi da utilizzare contro la sopraffazione dei diritti umani? Se così è, anche al di là dell’intenzione degli autori, e a prescindere dalla discutibilità di una tesi pur sempre rispettabile, resta da osservare che la rappresentazione giunge allo spettatore poco equilibrata, affastellata com’è di simbolismo rudimentale, misto al semplicismo realistico della narrazione.

sergio magaldi    


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