mercoledì 31 maggio 2017

Sovranità e democrazia dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau [Parte quarta]



SEGUE DA:





Pubblico di seguito, dividendolo in parti, il testo della relazione presentata al Convegno sulle forme della democrazia, organizzato dal Movimento Roosevelt e tenutosi a Roma nei giorni 8 e 9 dello scorso mese di Aprile, presso la Casa Internazionale delle Donne. Preciso che detto testo differisce nel contenuto dal video dell'intervento [per vederlo clicca su VIDEO: Sovranità e democrazia, dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau]
                             
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

 L’introduzione del vincolo di mandato parlamentare - come si è già visto - si rivela necessaria, secondo Rousseau, per sopperire alla mancanza di democrazia diretta, laddove questa risulti di difficile attuazione in un grande stato; resta evidente tuttavia che egli ritenga questa forma di democrazia come l’unica in cui la sovranità popolare, fondata sul principio di libertà che per natura appartiene ad ogni essere umano, possa esprimersi integralmente. Quanto alla divisione dei poteri, mentre Pufendorf e Hobbes la ritengono inaccettabile perché metterebbe in pericolo l’esistenza stessa dello Stato, al contrario, Locke, Montesquieu e addirittura con più forti accentuazioni Barbeyrac e Burlamaqui, la ritengono essenziale per evitare che lo stato liberale precipiti nell’assolutismo e nella tirannia. Rousseau, dal canto suo, sostiene nel Contratto Sociale che la sovranità “è semplice e una e che non si può dividerla senza distruggerla” [libro III, cap.XIII], affermazione che ricorda quella formulata da Hobbes nel Leviatano: “Non si può dividere la sovranità, senza dissolverla, perché quando in uno Stato i poteri  sono divisi, si distruggono l’uno con l’altro” [XXIX]. Ancorché le affermazioni suonino simili, profondamente diverso è lo scenario di riferimento. Tutto dipende da cosa s’intende per volontà generale e quale meccanismo procede alla sua formazione. Se la volontà generale è la volontà di uno Stato che trascende la volontà e la libertà dei cittadini nel nome di un’astratta sacralità, fosse pure quella rappresentata dalla sovranità popolare, allora non c’è dubbio che siamo di fronte alla costituzione di uno stato etico e totalitario. Se, viceversa, la volontà generale è l’espressione di una complessità democratica, in cui a nessun individuo è impedito l’esercizio della sovranità, allora siamo già proiettati nel futuro. Si comprende così tutta la differenza che passa tra “la negazione della divisione dei poteri” di Hobbes e “la negazione della divisione della sovranità” di Rousseau. Il fatto è che per Rousseau la sovranità indivisibile e inalienabile risiede unicamente nel potere legislativo, laddove i teorici dello stato liberale la attribuiscono a tutti e tre i poteri, accentrati in solo organismo o persona secondo Hobbes, divisi in tre distinte unità, secondo Montesquieu e gli altri. Ciò significa che Rousseau fa rientrare dalla porta la divisione dei poteri che non è divisione di sovranità, ma distinzione di funzioni, sostenendo esplicitamente che le competenze legislative, amministrative e giurisdizionali vanno ripartite tra organismi e soggetti diversi, ancorché il potere esecutivo, benché indipendente, debba sempre essere subordinato a quello legislativo, nel senso che quest’ultimo ha il compito di controllarlo ed eventualmente di sostituirlo, in quanto la sovranità del potere legislativo consiste essenzialmente nel fare le leggi e nel verificare che siano applicate. È dunque in malafede o poco documentato chiunque sostenga che il pensiero politico di Rousseau conduca inevitabilmente allo stato etico e totalitario, dove è il potere esecutivo che in nome della governabilità e della sovranità statuale finisce per subordinare gli altri due, pur mantenendoli formalmente in vita, manipolando la formazione delle leggi e servendosi del potere giudiziario per colpire gli avversari politici. Infine, va detto che la critica che Rousseau fa della Costituzione o legge fondativa di uno Stato si basa analogamente sul concetto di una sovranità popolare e universale di cui la volontà generale è depositaria. Tra il 1762 e il 1765,  Rousseau si rifugia in Val-de-Travers [attuale cantone svizzero di Neuchâtel] per sfuggire all’ordine d’arresto delle autorità ginevrine, a seguito del mandato di cattura spiccato dal Parlamento di Parigi dopo la pubblicazione dell’Emilio e del Contratto Sociale, opere giudicate pericolose e date alle fiamme pubblicamente davanti al Palazzo Comunale di Ginevra. Di qui, Rousseau scrive una serie di lettere, poi pubblicate col titolo di Lettere scritte dalla Montagna nelle quali – oltre a prendersela con il Gran Consiglio di Ginevra, con l’arcivescovo di Parigi e con Voltaire, campione di tolleranza che non dice una sola parola in difesa delle opere condannate – egli critica la Costituzione della Repubblica di Ginevra, sostenendo che concepire una Costituzione come inamovibile significa di fatto limitare la sovranità del potere legislativo. Lo Stato può ben darsi una Costituzione ma deve valutare la possibilità di cambiarla velocemente e semplicemente col mutare stesso di quella volontà generale che è la condizione stessa della legittimità e dell’unità dello Stato. Ciò non significa, tuttavia, che la volontà generale del momento sia migliore di quella del passato né che tale volontà non possa sbagliare. La questione è un’altra e si basa unicamente sul rispetto di regole imposte dall’unico legittimo detentore della sovranità.

 Resta la questione della formazione della volontà generale. Risulta chiaro, per Rousseau, come questa si manifesti difficilmente attraverso la democrazia rappresentativa. Oggi, più ancora di ieri, divenuta una mera democrazia formale. L’occidente europeo vive attualmente in una condizione in cui la maggior parte delle decisioni degli stati dell’Unione sono prese dalla Banca Centrale [BCE] del tutto autonoma dai parlamenti nazionali e dalla volontà dei cittadini. Si aggiunga a ciò che il Parlamento Europeo non è neppure l’espressione di detta volontà, avendo solo poteri consultivi e che i rappresentanti dei parlamenti nazionali sono eletti con leggi completamente differenti tra di loro e che, solo per restare in Italia, deputati e senatori sono scelti dalle segreterie di partito oppure col sistema delle preferenze, oggi invocato da più parti, nel recente passato bocciato da referendum perché ritenuto più favorevole alla corruttela pubblica. Louis Althusser definì l’opera di Jean-Jacques un capolavoro complicatissimo, labirintico, apparentemente contraddittorio, lontano dal geometrismo cartesiano, tipico del razionalismo illuministico. Ebbene, nell’apparente contraddizione tra il vagheggiamento della polis antica, vista come mirabile connubio di esigenze individuali e sociali, e l’impossibilità di utilizzare le forme della democrazia diretta in un grande stato, Rousseau fornisce più di un elemento per superare l’apparente inconciliabilità tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Non si tratta di ricorrere alla cosiddetta democrazia partecipativa, ingannevole e illusoria se non addirittura demagogica, né di ricercare forme ibride in cui il cittadino e il suo rappresentante siano insieme legislatori, come avviene di solito con il referendum, opportunamente filtrato e pilotato per esigenze di potere. Neppure si tratta, come si direbbe oggi, di democrazia elettronica, dove ciascun cittadino può manifestare rapidamente la propria volontà ma con il rischio di decisioni prese per spirito di fazione o magari senza la dovuta informazione e con scarsa riflessione, ricreando condizioni di consenso simili a quelle tradizionali. Si tratta invece di immaginare una forma nuova di espressione democratica in cui ogni cittadino, se davvero lo desidera, sia messo nella condizione di decidere della cosa pubblica. Nell’Atene di Pericle, come si è già detto, le cariche pubbliche erano assegnate per sorteggio tra i cittadini di media cultura e competenza, o mediante elezione assembleare per le cariche che richiedevano specifiche competenze. Insomma, la democrazia per sopravvivere in un grande stato deve uscire tanto dalle forme, ormai anacronistiche della “rappresentanza”, quanto dall’equivoco “dell’uno vale uno” inteso come mera partecipazione a decisioni che alla fine sono prese dai più informati, dai più scaltri, da chi nel fatto controlla la comunicazione e il potere. Questa recente forma di democrazia, infatti, ancorché possa apparire un passo avanti nella direzione giusta, rimanda in realtà ad una oligarchia, determinata non in base a effettive capacità di scelta, ma a logiche di potere e di carisma mediatico. Come ricorda Socrate nel Teeteto platonico, polemizzando con il sofista Protagora, non di tutte le cose è misura l’uomo e se, in fatto di vini, di cibi, di salute, di ginnastica, di musica e di ogni arte, richiediamo il parere dell’esperto, perché solo nell’arte della politica riteniamo di poterne fare a meno?

 Quando si fa dell’ironia sulla democrazia stocastica, cioè sulla scelta mediante sorteggio dei rappresentanti del popolo o quando se ne parla come di una tecnocrazia, perché ognuno dei cittadini sorteggiati dovrebbe di necessità appoggiarsi ad un esperto per legiferare, dimentichiamo più o meno volutamente che non tutti i cittadini hanno interesse ad occuparsi della cosa pubblica, tant’è che oggi molti scelgono la politica unicamente in funzione dei privilegi che assicura. In una ipotesi puramente esemplificativa, avendo in mente le istituzioni della Roma delle origini e quelle dell’Atene di Pericle e adattandole al nostro tempo, il sorteggio per la formazione della Camera dei deputati potrebbe avvenire tra gli iscritti a liste regionali di elettorato attivo, di cittadini e cittadine maggiorenni giudicati idonei - per le loro conoscenze di storia, diritto, economia e amministrazione pubblica e a prescindere dal loro titolo di studio – da specifiche commissioni formate di docenti universitari e/o di personalità che hanno dato lustro al Paese. Il mandato della durata di una legislatura potrebbe essere reiterato, sempre in base al sorteggio, ma non consecutivamente, e la relativa retribuzione andrebbe commisurata all’effettivo carico di lavoro e senza altri privilegi di natura economica. L’elettorato passivo andrebbe mantenuto per il referendum e per l’elezione di un Senato senza potere legislativo ma con quello di designare il potere esecutivo, mediante la formazione di un governo espresso dal partito o dai partiti di maggioranza, per mettere in pratica le leggi deliberate a maggioranza relativa dalla Camera dei deputati, per proporre leggi con procedura d’urgenza e per assicurare la rappresentanza internazionale del Paese. Una ipotesi costituzionale, questa, che solo in malafede può apparire utopistica e che unisce la migliore tradizione delle democrazie antiche con una concezione nuova dell’istituzione parlamentare: con la rilevanza che avrebbe il Senato, secondo la tradizione di Roma antica, il Popolo, alla luce della democrazia stocastica ateniese, il Parlamento, con la reale differenziazione dei poteri tra Camera e Senato.

sergio magaldi














Nessun commento:

Posta un commento