domenica 7 maggio 2017

Sovranità e democrazia dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau [Parte prima]




 Pubblico di seguito, dividendolo in parti, il testo della relazione presentata al convegno sulle forme della democrazia, organizzato dal Movimento Roosevelt e tenutosi a Roma nei giorni 8 e 9 dello scorso mese di Aprile, presso la Casa Internazionale delle Donne. Preciso che detto testo differisce nel contenuto dal video dell'intervento [per vederlo clicca su VIDEO:sovranità e democrazia,dalla città-stato a Jean-Jacques Rousseau]che si limita a illustrarlo sinteticamente. Aggiungo che la relazione integrale farà parte degli Atti del Convegno che saranno pubblicati a cura del Movimento Roosevelt.

 La sovranità popolare costituisce il fondamento stesso della democrazia e delle forme in cui il governo del popolo andò realizzandosi nella storia. A sua volta il concetto di sovranità popolare si lega strettamente al dibattito sui diritti umani già presente in età classica e procede di pari passo col più ampio confronto su ciò che debba intendersi per giustizia e diritto naturale. Il paradosso, tuttavia, è costituito dal fatto che l’esistenza di istituzioni democratiche non fu sempre collegata al principio della sovranità popolare. Quando Platone [428-348 a. C.], nel I libro della Repubblica fa dire al sofista Trasimaco [460-413 a. C.] che il diritto naturale si identifica col diritto del più forte, la democrazia, come possibile forma di governo, non scaturisce affatto dal riconoscimento della sovranità popolare, bensì dalla sovranità del più forte che, secondo il proprio interesse, sceglierà leggi democratiche, oligarchiche o addirittura tiranniche per mantenere il potere. Dice Trasimaco [Repubblica, 338e-343]: “[…] Ogni governo stabilisce sempre le sue leggi  a seconda del proprio interesse, la democrazia istituisce leggi democratiche, la tirannide tiranniche e così via: una volta poi stabilite queste leggi i governanti dichiarano che per i sudditi giusto è ciò che giova a loro, e chi trasgredisce è punito come trasgressore delle leggi, come violatore della giustizia. Ecco, amico mio, in che consiste questa giustizia che io affermo essere di fatto sempre la stessa in tutte le città: ciò che giova al potere costituito. Esso possiede, infatti, la forza, perciò per chi ragiona rettamente, segue che ovunque il giusto consiste sempre nella stessa cosa, in ciò che giova al più forte”.

 Un primo embrione di democrazia – non più intesa indifferentemente al pari della tirannide e dell’oligarchia, come strumento dei più forti, ma come la forma di governo che più di ogni altra sembra collegarsi al diritto di natura – s’intravede già nelle analisi di altri sofisti che si levano per affermare tesi completamente opposte a quelle di Trasimaco e di Callicle: Ippia di Elide nel sostenere che “tutti gli uomini sono congiunti tra loro, perché il simile è per natura parente del simile”; Alcidamante [cfr. Aristotele, Retorica] col proclamare la libertà originaria dell’uomo, giacché “la natura non creò nessuno schiavo”; Antifonte Sofista per sottolineare il contrasto esistente tra legge [nomos] e natura [fusis], la violazione che la norma di diritto positivo compie di frequente nei confronti dei diritti che appartengono all’uomo per natura, e la sostanziale uguaglianza di tutti gli uomini. Dice Antifonte: “Noi rispettiamo e veneriamo coloro che hanno nobili natali, ma non rispettiamo e non veneriamo chi è di oscura nascita. In questo ci comportiamo gli uni verso gli altri da barbari, perché per natura in tutto e per tutto siamo tutti uguali, sia barbari che Greci. Basta considerare le necessità naturali proprie di tutti gli uomini: sotto questo aspetto nessuno di noi può essere definito barbaro o greco. Noi tutti respiriamo, infatti l’aria con la bocca, con le narici e…”[Oxyrh, Pap., XI, n.1364, ed. Hunt, Fragm. B.,col.2:D.-K.,87 B.44.].

 Per quanto posta su basi materiali, la concezione di Antifonte – unitamente alle affermazioni di Ippia e Alcidamante e di altri sofisti – rappresenta l’espressione ante litteram del giusnaturalismo, con l’idea che il diritto naturale si fondi sulla ragione e non più sugli istinti ferini che pure appartengono agli esseri umani. Non a caso, nel XVII Secolo, a seguito di tutto un fiorire nella cultura occidentale di scritti che rompono con il diritto canonico, Grozio [Huig de Groot 1583-1645] enuncia i principi del moderno giusnaturalismo, in base al quale il diritto naturale perde la sua fonte giustificativa nella legge divina, per trarre il suo fondamento unicamente dalla ragione umana. Contestualmente, con Johannes Althusius [1563-1638] si affaccia nella storia il principio della sovranità popolare e la legittimità di ogni comunità umana tramite un contratto esplicito o implicito.

 D’altra parte, perché la democrazia possa effettivamente esplicarsi nel suo significato più proprio c’è bisogno che si affermi il concetto di sovranità popolare universale. Diversamente, avremo governi cosiddetti democratici, solo perché il governo viene esercitato per conto di “frazioni” di popolo, distinte per censo, età, sesso, cittadinanza e/o appartenenza tribale, ancorché l’esercizio della sovranità si realizzi in forme, ritenute possibili per l’esiguità dei numeri, che oggi diremmo di democrazia diretta. Così, prima ancora che nella più celebre democrazia ateniese, avviene a Roma sin dalle origini [753 a.C.]. Formata per sinoichismo [sun oikos: unione di stirpi] da Ramni [Romani], Tizii [Sabini] e Luceri [Etruschi], tribù che abitavano il Palatino, la città comprendeva 30 curie, in ragione di 10 curie o gentes [gruppi di famiglie che si riconoscevano in un antenato comune] per ciascuna delle tre tribù, che aumentarono quando la città si fuse quasi subito con gli abitanti del Quirinale e successivamente con quelli dell’Esquilino, del Campidoglio e degli altri colli [Viminale-Celio-Aventino]. Il potere apparteneva virtualmente al Senato – formato inizialmente da 300 senatori, in ragione di 100 capifamiglia di ciascuna tribù –  che eleggeva il rex ma non poteva promulgare le leggi senza l’approvazione dei Comizi o assemblee formate dai cittadini distinti secondo il censo e l’età [Comizi Centuriati], la base territoriale [Comizi Tributi] e l’appartenenza ad una gens [Comizi Curiati]. Di qui la formula SPQR [Senatus PopulusQue Romanus] che accompagnava ogni legge approvata. La cittadinanza romana fu estesa progressivamente dai patrizi – che secondo Tito Livio erano i discendenti da quei Patres che formarono il primo Senato romano –  e dalle loro famiglie sino ai clienti – per lo più abitanti delle campagne o delle città conquistate che non finissero in schiavitù – e ai plebei o lavoratori manuali, a seguito della secessione della plebe del 494 a.C. sul Monte Sacro che comportò l’istituzione di una quarta assemblea: il Concilium Plebis.

 Non diversamente, ad Atene [città-stato sorta anch’essa per sinoichismo tra le popolazioni dell’Attica], dopo la tirannide di Pisistrato, nel 508 a.C. si venne affermando con Cisténe [565-492 a.C.] una democrazia rappresentativa su base tribale, cui seguì nel 462 a.C. con Efialte, una riforma democratica che diminuì i poteri dell’Areopàgo [assemblea di aristocratici eletti per anzianità e discendenza] a vantaggio delle assemblee cittadine e che introdusse la nomophylakìa [la custodia e l’osservanza della costituzione].  A Efialte [495 – 461], assassinato giovanissimo per mano degli oligarchici solo un anno dopo l’approvazione della riforma, subentrò Pericle [495-404 a.C.] e la piena affermazione di una democrazia radicale e diretta, basata sui poteri della Boulé [consiglio dei membri delle tribù con poteri di iniziativa legislativa, simile in parte al Senato romano] e dell’Ecclesía, l’Assemblea dei cittadini radunata nell’Agorà e alla quale spettava l’approvazione delle leggi e anche il controllo del potere esecutivo e giudiziario. Le cariche pubbliche erano assegnate secondo criteri di democrazia stocastica [stokastikòscongetturale] tra i cittadini di media cultura e competenza, o mediante elezione assembleare per le cariche che richiedevano specifiche competenze. Pericle fu forse il primo politico della storia ad essere chiamato “populista” dai suoi avversari, nonostante la nobile discendenza e le ricchezze familiari, la grande cultura e l’amicizia di filosofi illustri come Protagora e Anassagora, e malgrado il fatto incontestabile che il periodo in cui egli fu considerato il primo cittadino di Atene fu anche quello di massimo splendore della polis e dell’isonomia, cioè dell’eguaglianza di tutti i cittadini liberi di fronte alla legge. Celebre, a questo riguardo, l’Epitafio di Pericle per i caduti del Peloponneso, tramandatoci da Tucìdide (460-395 a.C.) e di cui di seguito riporto un estratto:

[37, 1] Il nostro sistema politico non si propone di imitare le leggi di altri popoli: noi non copiamo nessuno, piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri. Si chiama democrazia,poiché nell'amministrare si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza. Le leggi regolano le controversie private in modo tale che tutti abbiano un trattamento uguale, ma quanto alla reputazione di ognuno, il prestigio di cui possa godere chi si sia affermato in qualche campo non lo si raggiunge in base allo stato sociale di origine, ma in virtù del merito; e poi, d'altra parte, quanto all'impedimento costituito dalla povertà, per nessuno che abbia le capacità di operare nell'interesse dello Stato è di ostacolo la modestia del rango sociale[…][2]La nostra tuttavia è una vita libera non soltanto per quanto attiene i rapporti con lo Stato, ma anche relativamente ai rapporti quotidiani, di solito improntati a reciproco sospetto: nessuno si scandalizza se un altro si comporta come meglio gli aggrada, e non per questo lo guarda storto, cosa innocua di per sé, ma che pure non manca di causare pena. [3] Ma se le nostre relazioni private sono caratterizzate dalla tolleranza, nella vita pubblica il timore ci impone di evitare col massimo rigore di agire illegalmente, piuttosto che in ubbidienza ai magistrati in carica e alle leggi; soprattutto alle leggi disposte in favore delle vittime di un'ingiustizia e a quelle che, anche se non sono scritte, per comune consenso minacciano l'infamia.
[38, 1] Nel nostro lavoro abbiamo provveduto a creare un gran numero di momenti di riposo per ricreare lo spirito […] da cui traiamo un quotidiano diletto che rasserena l'animo.
[40, 1] Amiamo il bello, ma non lo sfarzo, e coltiviamo i piaceri intellettuali, ma senza languori. La ricchezza ci serve come opportunità per le nostre iniziative, non per fare sfoggio quando parliamo. E ammettere la propria povertà non è vergogna per nessuno: ben più vergognoso è piuttosto non darsi da fare per venirne fuori. [2] La cura degli interessi privati procede per noi di pari passo con l'attività politica, ed anche se ognuno è preso da occupazioni diverse, riusciamo tuttavia ad avere una buona conoscenza degli affari pubblici. Il fatto è che noi siamo i soli a considerare coloro che non se ne curano non persone tranquille, ma buoni a nulla […]E siamo i soli a prestare liberamente aiuto agli altri non tanto per calcolo ma piuttosto in pegno di libertà.
[41, 1] In sintesi, affermo che la nostra città nel suo insieme costituisce un ammaestramento per la Grecia e, al tempo stesso, che da noi ogni singolo cittadino può, a mio modo di vedere, sviluppare autonomamente la sua personalità nei più diversi campi con grande garbo e spigliatezza […] [5] Ed è per una tale città che questi uomini hanno affrontato nobilmente la morte in combattimento, ritenendo che non fosse giusto perderla, ed è naturale che ognuno di quelli che restano volentieri per essa affronterà ogni travaglio [Tucidide,Istorie,II:35-46,trad. M. Cagnetta].

 Va tuttavia ricordato che anche nell’età di maggiore espansione della democrazia diretta, la sovranità popolare è limitata ai polítes o cittadini, maschi adulti, figli di cittadini liberi. Ne sono esclusi i residenti di origine barbara [straniera] e gli schiavi, mentre le donne delle famiglie i cui maschi godevano del diritto di cittadinanza, erano formalmente cittadine, ma prive dei diritti politici. L’introduzione del suffragio femminile, com’è noto, è storia recente: lo si trova, poi revocato, nella costituzione dello stato americano del New Jersey del 1776  e in Europa se ne comincia a discutere durante la rivoluzione francese negli scritti del girondino e marchese Antoine de Condorcet [1743-1794] e di Olympe de Gouges [1748-1793] che nel 1791 pubblica la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina e che qualche anno dopo fu ghigliottinata per essersi opposta alla morte di Luigi XVI e per aver attaccato il Comitato di Salute Pubblica. Sembra che il procuratore della Comune di Parigi abbia così commentato la sua morte: “Ricordatevi l’impudente Olympe de Gouges, che per prima istituì le società di donne, abbandonando le cure della casa per immischiarsi nelle faccende della Repubblica, e la cui testa cadde sotto il ferro vendicativo della legge.” La Comune di Parigi del 1871 riconobbe il diritto di voto alle donne, revocato poi con la sua caduta e ripristinato in Francia solo nel 1944 da Charles de Gaulle, quando in Europa era già stato approvato  il suffragio femminile nei paesi scandinavi negli anni precedenti la Prima guerra mondiale e in Inghilterra, Germania, Polonia Olanda, Stati Uniti e Turchia negli anni successivi. In Italia, fu istituito dalla Repubblica Romana del 1849, per il breve tempo della sua esistenza, e nel 1920 dalla Reggenza italiana del Carnaro di Gabriele D’Annunzio [Carta del Carnaro art.12] per essere definitivamente approvato solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. [SEGUE]

sergio magaldi

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