martedì 16 gennaio 2018

NOTE SULLA QABBALAH: parte IV, l’uno e le porte della conoscenza





SEGUE DA:


NOTE SULLA QABBALAH: parte I, la teurgia  (clicca sul titolo per leggere)

 

Avvertenza: per leggere le lettere ebraiche occorre il font hebrew

 

LE 231 PORTE DELLA CONOSCENZA


 Tornando all’Asse del Mondo, Telì ( y l t = 440) ha due ghematrie significative: Tam  \ t  completo e Met t m  morte. La ruota celeste è Galgal, che nel Talmud designa la ruota dello zodiaco. Nel Bahir (106) è l’utero o ventre ed ‘è nell’anno come un re nella provincia’ (Sepher Yetzirah,6:3). Non definisce il tempo (in quanto Telì è lo spazio), ma vi si trova dentro. Detta altrimenti: il tempo non è che una determinazione dello spazio. Le 22 lettere dell’alfabeto ebraico in connessione con Galgal formano le 231 Porte della conoscenza, come è scritto nel Sepher Yetzirah (2:4): ‘22 lettere… Le collocò in circolo come un muro con 231 Porte’. Una delle tante possibili speculazioni cabbalistiche che offre il Sèpher Yetzirah si riferisce a  b y t n  Netiv, sentiero, che ha valore numerico 462, sommando le 4 lettere dell’alfabeto ebraico che formano la parola (Nun 50+ Taw 400+ Yud 10+ Beth 2 =462). La metà del valore numerico di Netiv è 231, il numero delle porte della Conoscenza, che formano tutta la realtà e che si possono individuare attraverso più complesse indagini cabbalistiche. Le Porte si ricavano anche applicando una formula basata sul principio seguente: dato un certo numero di punti (n) in una circonferenza, il numero delle linee (L) che si ricavano connettendo tra loro tutti i punti è L=n (n-1) / 2. Applicando tale formula alle 22 lettere si ha: L= 22x21/2=231. La conoscenza delle 231 Porte pare servisse alla costruzione di un Golem, perché ciò avvenisse erano necessarie 97.240 pronunce di lettere associate alla cinque vocali primarie e alle quattro lettere del Tetragramma. Il restante 231 è rappresentato da Israele che si scrive in ebraico con le lettere Yud-Shin-Resh-Aleph-Lamed, lettere l a r c y che si possono suddividere in Iesh-Rela che significa “Sono 231”. In tal senso, Israele perde qui i suoi connotati di realtà storico-geografica ed etnica per acquisire la dimensione dell’universalità. Il centro dell’albero dove convergono i trentadue sentieri è il fuoco originario della manifestazione ed è rappresentato da Lev, cuore, com’è scritto: ‘Il cuore è nell’anima come un re in guerra’ (Sepher Yetzirah,6:3): il suo ruolo è di conciliare le opposizioni e di creare equilibrio e armonia (Thiphereth). Il Talmud identifica il cuore come lo scenario della battaglia incessante tra impulso buono e impulso cattivo. Kaplan osserva che le iniziali di Telì-Galgal-Lev formano la parola Taghel presente nel versetto di Isaia, 61-10: ‘La mia anima si delizierà in Dio’. Per alcuni cabbalisti, la meditazione su questi tre elementi può condurre all’estasi mistica.


CABBALISTI PROVENZALI E SEFARDITI: da Isacco il Cieco ad Azriel di Girona


 Uno tra i maggiori discepoli di Isacco il Cieco fu, come si diceva sopra, Azriel di Girona che oltre ad occuparsi di astrologia cabbalistica, scrisse diversi commenti e brevi trattati. Nel Commento al Libro della Formazione, si interroga sulle sephiroth e sull’impossibilità per l’uomo di comprendere la prima sephirah o corona suprema a causa della sua stretta connessione con Ein Soph. C’è a suo giudizio – ed è un tema che ricorre spesso in Zohar – una potente attrazione tra le nove sephiroth superiori e la decima sephirah, quasi due amanti che si desiderano e si cercano per potersi finalmente possedere. Nel Commento sull’unificazione  del Nome, Azriel riprende i temi cari al suo maestro: la distruzione del Tempio, l’esilio, la presenza del male  e la perdita dell’unità del nome divino sono stati causati dal disordine generatosi all’interno del mondo delle sephiroth: in nuce, una sorta di anticipazione della rottura dei vasi della qabbalah luriana, come vedremo più avanti. Nel Commento sulle leggende talmudiche, Azriel sostiene che il desiderio di Mosè di conoscere il segreto dell’esistenza del bene e del male, dipese unicamente dal fatto di ignorare quale modalità di pensiero circolasse realmente nelle Sephiroth, ancorché fosse consapevole del loro comportamento nella realtà. Nei Principi sul segreto della Preghiera delle 18 Benedizioni, egli afferma che la meditazione sulle sephiroth, sulle lettere e sul Nome costituisce la vera preghiera del cabbalista. Altre concentrazioni utili sono quelle sull’acqua e sui colori. Nella undicesima benedizione indica i momenti del giorno propizi alla recita dello Shemà Israel[1]:

 “Sappi, figlio mio, che l’Unità [contenuta nella preghiera ‘Ascolta Israele’ deve essere proclamata in due momenti precisi del giorno:] quando la luce se ne sta per andare e l’oscurità comincia ad apparire, e quando l’oscurità sta andando via e la luce comincia a brillare. Questo testimonierà che il Signore è Uno [e che sta in cima] in tutte le opposizioni” [2]

 Nella quattordicesima benedizione, accenna a temi che saranno ampiamente trattati nello Zohar: la conoscenza dell’uno come unificato e la presenza in ogni forma della scintilla divina, che egli chiama radice e che persiste anche dopo la scomparsa della forma:

 “Sappi, figlio mio, che su questa questione i filosofi dicono che chi scende dalla radice delle radici sino alla forma delle forme deve giungere sino alla molteplicità, e chi sale dalla forma delle forme sino alla radice delle radici deve provocare l’unione del molteplice, perché ciò che sta più in alto di tutto permane unito. La radice è presente in tutte le forme che da lei procedono in maniera permanente e, anche quando le forme scompaiono, la radice resta”.[3]

 Nel Portico dell’interrogante, Azriel dà risposta a diversi interrogativi da lui stesso posti con la formula: “Se qualcuno ti domanda: […]”. Le più interessanti  domande-risposte sono quelle che riguardano le Sephiroth   di cui egli sostiene l’emanazione e non la creazione: in quanto immediatamente prodotte dall’Infinito Ein Soph, che è perfetto, non possono che parteciparne la perfezione, diversamente, se fossero state semplicemente create, non godrebbero della sua stessa sostanza infinita. Quanto ad Ein Soph, Azriel si limita – così come facevano tutti cabbalisti delle scuole medievali – a sottolinearne l’impossibilità della conoscenza che, come si è visto sopra, si estendeva sino alla prima sephirah o corona suprema. Del resto, il maestro di tutti, Isacco il Cieco, raccomandava ai suoi scolari di tener fuori Ein Soph da ogni speculazione e testimoniava di rivolgersi solo alla Corona o Kether, prima sephirah, che chiamava ugualmente Ein Soph e alla quale dichiarava di volersi abbeverare.
 Dal valore numerico di Ein Soph [1+10+50+60+6+80=207] [ w s  } y a  i cabbalisti potevano comunque trarre  significative ghematrie come  z r  Raz, segreto, e  r w a  Or, luce, aventi lo stesso valore di 207.

EIN SOPH


 L’impossibilità di conoscere Ein Soph è già adombrata nel Sepher Yetzirah, allorché si chiede: “E prima dell’uno che numero puoi tu contare?” [1:7] e il testo ha già detto al rigo precedente che non è lecito iniziare a contare dallo zero: “Dieci sephiroth beli mah, è insita la loro fine nel loro principio ed il loro principio nella loro fine”. Dunque, lo zero-nulla non è né fine né principio. In successivi testi cabbalistici lo zero-nulla diviene l’ “Ayn” di Ein Soph, concetto, questo, spesso erroneamente assimilato all' “Apeìron” di Anassimandro. In realtà, l’a-peìron del pensatore ionico è il “senza-limite”, dall'alfa privativo greco che indica la negazione, ed esprime il caos originario della materia, la mescolanza primigenia di tut­te le cose. L’ “Ayn” ebraico, composto dalle lettere Alef-Yud-Nun, invece, non è privativo di qualità ma di luogo: Ein Soph indica perciò l'impossibilità di cogliere l'origine e la fine, oltre ciò che è manifesto. La fine è impossibile da coglie­re: i fenomeni che derivano dai primi dieci numeri sono infi­niti. Il principio è ugualmente fuori portata. Non solo perché non è lecito iniziare a contare dallo zero, ma anche perché, come vedremo più avanti, 'In principio’ è il due.

 Nello Zohar, il significato dato dallo Yetzirah a un concetto ancora embrionale di Ein Soph, non ne risulta affatto stravolto, ma addirittura rafforzato: “Ein-Soph, infinito: in lui non c'è alcuna apertura, ogni interrogativo è vano, come ogni idea per le possibilità dal pensiero”[4]. Più avanti Ein Soph è detto “Chiusura inaccessibile e sconosciuta [...] resiste ad ogni possibile conoscenza e non se ne può fare né una fine né un principio”[5]. C'è di più: non solo 'Ein-Soph' non è il principio, non lo è neanche l’uno. Il principio è il due, come attesta la nostra esperienza, come sostenevano gli antichi pitagorici, com’è scritto in Zohar:

 “E’ scritto: ‘In principio’ (Bereshith), ma è la lettera beth che si trova all’inizio, el­la che è il due, la seconda lettera dell'alfabeto. Perché il due e chiamato 'principio’, allorché la Corona suprema (l'uno), benché sia la prima, si ritrae. Poiché ella non si mette in Questione, è il due che è il principio”. [6] La spiegazione rimanda alle prime parole del Genesi, come chiarisce un altro passo dello Zohar:

 “In principio. Rabbi Amnouna l'anziano disse: incontriamo nelle prime parole del Genesi una inversione nell'ordine alfa­betico delle lettere: prima una beth seguita da un'altra beth in 'Bereshith barah' ('In principio creò'), poi soltanto una aleph seguita da un'altra aleph in 'Elohìm-eth’('II Signore')”. [7]

 Dall'esame dei passi citati emergono due considerazioni essenziali e la prima è che ‘in principio’ è il due. Non a caso, le let­tere del tetragramma corrispondono rispettivamente alla seconda, alla terza, alla sesta e alla decima sephirah: Yud-Hochmah, il padre; He-Binah, la madre; Vaw-Tiphereth, il figlio; seconda He-Malchuth, la figlia o la sposa.[8] La seconda considerazione, di non minore importanza, è che l'uno in sé è 'Ayin'-Nulla. Ciò che noi conosciamo, infatti, non è l'uno, ma l'unificato, il coronamento. L'estasi plotiniana[9] che di fatto implica l'assimilazione nell'Uno è per principio fuori portata. Pro­prio perché in principio è il due, l'uno possiamo conoscerlo solo unificando la diade. Tale unificazione è possibile grazie a un elemento in grado di equilibrare ciascun polo della diade: il tre, come ancora ci mostra un passo dello Zohar

 “Tre sorge dall'uno, l'uno nel tre prende consistenza: egli penetra in due e due abbevera l'uno, l'uno abbevera la molteplicità, allora tutto è uno. Com'è scritto: ‘Fu sera, fu mattina, un solo giorno’(Genesi I-1). Giorno, dove sera e mattina si abbracciano nell'unità: questo è il segreto dell'alleanza tra il giorno e la notte, e in lui tutto è uno.”(9)[10]

 E ancora: in Binah, la terza sephirah (il tre), che è composta dalle lettere Beth, Yud, Nun, He , c'è il principio (Beth), il padre (Yud), la madre (He). La lettera Nun, tra lo Yud e la He, rappresenta allora l'equilibrio tra i due, tra il padre e la madre, il maschio e la femmina.

 In conclusione, dunque, l'uno, per ciò che si rivela è due, per ciò che si conosce è tre, per ciò che si ritira è il nulla e si rivolge verso Ein Soph. In tale contesto, Ein Soph, lungi dall'essere l’Uno dell'estasi plotiniana, altro non è che la pensabilità della negazione della fine e del principio. Così, se l'uno, come tale, si ritrae, e se non è possibile al­cuna speculazione su Ein Soph, non resta che aspirare all'uni­ficazione; cogliere, cioè, l'uno nella sola forma in cui si ri­vela, nell'unificato. Si comprende allora come l'unificazione più alta sia quella tra l’uomo e la donna, la diade originaria, il principio. Si comprendono, altresì, nella tradizione ebraica, sacralità e fortuna dello Shirah-Shirim o “Cantico dei Cantici”.

[S E G U E]

Sergio Magaldi




[1] […]  d j a   h w h y   w n y h l a    h w h y    l a r c y    u m c
‘Shemà Israel Adonai Elohenu Adonai Echad…’ “Ascolta… Israele… il Signore è il nostro Dio… il Signore è uno… Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e saranno queste parole che io ti comando oggi nel tuo cuore… le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro stando nella tua casa, camminando per la via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai per segno sul tuo braccio e saranno come frontali in mezzo agli occhi e […]”.
[2] Azriel de Girona, Cuatro Textos Cabalísticos, Riopiedras Ediciones, Barcelona, 1994, p.158. La traduzione dal castigliano è mia, come quella del passo che segue
[3] Ibid., p.159
[4]Sepher ha Zohar, ed. Verdier, I, 2Ia. La traduzione del brano dall’edizione francese, come dei successivi brani citati dallo Zohar, è mia.
[5]Ibid.,II,239a
[6] Ibid.,I,31b
[7] Ibid.,I,2b
[8] Midrash-ha-Heelam,75a; Idra Zouta,Zohar III,291a
[9] L' ineffabile Uno di Plotino si svela mediante l'estasi o, me­glio, si rivela a chi, librandosi sul fango della materia e riper­correndo a ritroso il cammino emanativo, giunge infine a medesimarsi con Lui: “Tutti gli uomini sin dalla nascita fanno uso dei sensi pri­ma che dell'intelletto e incontrando, dapprima, di necessità le cose sensibili, gli uni, fermi in esse, trascorrono la loro vita nelle credenze che esse siano le prime e le ultime cose, e so­stengono che quanto v’è in esse di doloroso e di piacevole sia rispettivamente il male e il bene: così, pensando di averne abbastanza passano la vita perseguendo l'uno o l'altro, lonta­ni dal loro tetto. E chi tra loro si atteggia a filosofo pre­tende persino che sia qui la sapienza. Somiglian, costoro, ad uccelli pesanti e che hanno preso molto dalla terra, e, appe­santiti così, non riescono a volare in alto, per quanto dotati di ali dalla natura. Altri si sollevano un po’ dalla bassura, perché la parte più nobile dell'anima loro li sospinge dal piacere alla bellezza; ma poiché non riescono a vedere le altezze, privi di altro sostegno cui appoggiarsi, precipitano in basso, insieme con la loro decantata 'virtù’ dell'agire pratico, cioè alla scelta, tra le cose vili e basse donde prima avevano tentato di sollevarsi.
 V’è, infine, una terza schiera: uomini divini di più forte vi­gore e di sguardo più acuto che san vedere, come per suprema in­tensità visiva, lo splendore superno, e s'innalzano fin lassù, quasi al di sopra delle nubi, e deliziandosi di quel luogo, bene verace e avito; come un uomo che dopo vagabondaggio abbia fatto ritorno alla patria sua retta da buone leggi.”[Plotino, Enneadi, V.9.I. , trad.it. di V.Cilento].
[10] Zohar,I-32a

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